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Meno Irpef o più investimenti? Ecco dilemmi e facili entusiasmi del governo. Il commento di Polillo

Nel cielo sempre più confuso della politica, qualcosa si muove in controtendenza. Non va, naturalmente, sopravalutata, ma di fronte al consolidarsi di una retorica tutta “stabilità ed immobilismo” è qualcosa su cui su può cominciare a costruire. Non sarà naturalmente la “cura da cavallo” promessa dal Presidente del consiglio, Giuseppe Conte, né “il riaccendere i motori” di Nicola Zingaretti, oppure lo shock più volte evocato da Mattei Renzi. Per non parlare di Vito Crimi, costretto a riscoprire le virtù della ripresa, dopo aver predicato per anni la “decrescita felice”. Ma certo è che il tema dello “sviluppo”, per anni ed anni da tutti trascurato, è tornato, finalmente, a recuperare una sua centralità.

Manca solo una parte dell’opposizione. Timorosa ed incapace di uscire dai vincoli di una vecchia impostazione. Che aveva senso all’indomani della crisi del 2007, quando la maggior parte degli Stati dovevano rientrare dalle somme stanziate per far fronte alla grande crisi bancaria. Ma che oggi, in una seppur precaria normalità, non ha più la stessa forza. C’è naturalmente il problema di un debito pubblico che cresce. Per la verità non solo in Italia. Ma è ancora tutto da dimostrare, contro ogni evidenza empirica, che le politiche di austerità abbiano contribuito a ridurlo.

Resta comunque da capire quale sia stata la molla che ha spinto le varie componenti della maggioranza a superare quelle vecchie colonne d’Ercole. Puro nominalismo? Semplice istinto di sopravvivenza, in vista delle prossime scadenze elettorali? Certamente: tutto questo pesa ed ha pesato, specie in una congiuntura politica segnata dalle profonde divergenze che riguardano i problemi di fondo (la prescrizione) della società italiana. Ma sarebbe miope non guardare oltre il giardino, per cogliere i rovelli reali della politica.

Alcune contraddizioni sono evidenti. Nel 2021 e nell’anno successivo si parte da meno 45 miliardi circa. La somma necessaria per sterilizzare gli aumenti dell’Iva e delle accise, già contabilizzate nel “tendenziale” di finanza pubblica. Quest’impegno assorbirà quasi tutte le risorse disponibili. Come finanziare, allora, la “fase due” di cui tanto si parla? Quel “programma 2023” che è nel cuore del Presidente del consiglio, Giuseppe Conte, ma che sembra essere destinato ad essere un puro sogno di primavera. La verità è che il rispetto dei vincoli del Fiscal compact non consente alcuna fuga in avanti. Tanto meno una politica fiscale (la grande riforma predicata dal Ministro dell’economia, Roberto Gualtieri) diversa da una semplice redistribuzione del reddito. Togliere ai ricchi, che tuttavia numericamente sono pochi, per dare ai poveri. Che invece, essendo tanti, rendono irrisolvibile l’equazione.

Ed ecco perché non resta che tentare la strada di una ripresa dello sviluppo. In Italia come in Europa, alle prese con un bilancio (2021-27) troppo stretto, per reggere alle “sfide” (copyright del Presidente del consiglio). Ma è qui che i problemi si complicano. Abbiamo bisogno di grandi investimenti: indubbio. Restano tutte le incongruenze del codice degli appalti e di un apparato amministrativo incongruente: 5 anni di tempo dalla decisione iniziale all’effettiva esecuzione dell’opera. Quando va bene. Si può accelerare? Forse. Ma al momento nessuna reale iniziativa. C’è tuttavia un piccolo corollario di cui si deve tener conto. Si dice: le risorse sono stanziate. Cento miliardi giacenti nelle pieghe del bilancio. Vero, ma fino ad un certo punto.

Gli stanziamenti sono stati decisi in una delle tante leggi finanziarie. Registrati, quindi, negli appositi capitoli. E come tali conteggiati, secondo le regole della contabilità finanziaria. La quale tuttavia, non rileva (una delle tante inutili sofisticazioni delle regole europee) ai fini del deficit, secondo i parametri del Fiscal compact. Che, a loro volta, sono il risultato di una diversa regola contabile: quella economica – finanziaria. La quale prende in considerazione la spesa in conto capitale, solo nel momento in cui essa dà luogo all’effettiva erogazione di cassa. La conseguenza è evidente. Il vincolo effettivo non scatta nel momento della decisione parlamentare, ma quando le somme sono effettivamente spese. Perché è solo allora che vengono contabilizzate nel deficit.

Quindi? Nessun pasto gratis. Fare gli investimenti è necessario, anzi indispensabile. Ma togliamoci dalla testa ch’essi siano liberi da condizionamenti. Incidendo sul deficit, sono trattati alla pari di qualsiasi altra spesa o riduzione di entrate. Ed ecco allora che la discussione se sia meglio puntare ad una riduzione del carico fiscale o ad un aumento degli investimenti diventa più trasparente: nella ricerca del mix migliore per garantire, nel breve e nel medio periodo, un tasso di crescita maggiore dell’economia reale. La discussione, come si vede, è aperta. Speriamo solo non si banalizzi in formule precostituite. Perché l’Italia rischia di infilarsi, più rapidamente del previsto, in un drammatico cul de sac. Di cui è bene avere consapevolezza.

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