In Germania non vale la pena di lavorare, lo afferma Der Spiegel, e la colpa è del Bürgergeld, il reddito di cittadinanza, ma non solo. Anche il fisco è un freno, se si guadagna di più si perdono diversi sconti e agevolazioni, a partire dagli assegni familiari.
Dal primo gennaio, il Bürgergeld è salito del 12 per cento, pari al tasso di inflazione, a 563 euro, ma gli stipendi non sono aumentati, al massimo i contratti sono cresciuti del 4 o 6 per cento, ed è diminuita la differenza tra chi resta a casa accontentandosi degli aiuti pubblici, e chi va in ufficio o in fabbrica. Chi riceve il Bürgergeld ha diritto a un alloggio, con tutte le spese relative, in certe regioni può anche viaggiare gratis sul bus e sul metro.
Chi svolge un lavoro al minimo arriva in media intorno ai 1.300 euro netti, ma deve pagarsi l’affitto. Chi ha voglia di alzarsi alle cinque del mattino per andare a spazzare le strade per ottenere a fine mese un centinaio di euro in più? Una famiglia di 4 persone a Monaco arriva a 3.333 euro, tra reddito e altri aiuti. Il 64 per cento ritiene che il Bürgergeld sia troppo generoso, si dovrebbero piuttosto aumentare le pensioni al minimo.
Le riforme del fisco hanno paradossalmente reso controproducente lavorare di più: se si esagera con gli straordinari, o si ottiene un aumento, si perdono agevolazioni e si pagano più tasse. La società di trasporti Nikkel nella Ruhr, con 210 dipendenti, ha comunicato che diversi autisti hanno rinunciato alla gratifica di Natale, 200 o 300 euro, per non pagare più tasse.
Il reddito è percepito da cinque milioni e mezzo di cittadini, 2,9 milioni sono tedeschi, e gli altri profughi, e lo Stato paga 44 miliardi di euro all’anno. I profughi hanno diritto al Bürgergeld dopo cinque anni di residenza, ma 667mila ucraini lo hanno ricevuto subito perché fuggiti dalla guerra, e il costo per loro ammonta a 5,5 miliardi di euro. Ora si ammette che forse è stato uno sbaglio fare un’eccezione. Circa metà degli ucraini non frequenta i corsi di lingua e per imparare un mestiere, sono quasi tutte donne e preferiscono rimanere a casa e badare ai figli.
Con l’acqua alla gola, perché costretto a non fare nuovi debiti, il governo cerca di risparmiare, e vuole tagliare gli aiuti a chi non ha voglia di lavorare. «In caso di totale rifiuto di un lavoro, non si deve ricevere neanche un euro, e chi si licenzia per stare a casa, come avviene, non dovrebbe avere scampo», dichiara il ministro del lavoro, il socialdemocratico Hubertus Heil. Ma non è affatto facile.
Il Bürgergeld equivale al minimo vitale, calcolato ogni cinque anni da una commissione, che non tiene conto delle spese superflue, fiori, cibo per cani e gatti, ed alcol. Ma se è il minimo necessario non è legittimo tagliare, ha sancito la Corte Costituzionale.
Nei casi gravi si può giungere al 30 per cento, ma i colpiti fanno reclamo e quasi sempre vincono. E comunque si arrotonda con qualche lavoretto al nero. A ricevere il reddito sono anche i bambini, e il 62 per cento delle famiglie sono straniere. L’anno scorso in 351mila hanno chiesto asilo, quasi mille al giorno.
Lo Spiegel racconta il caso di Volkmar Woite, titolare di una storica macelleria di Potsdam, aperta nel 1920. Ha 4 dipendenti e ne servirebbero altri due, ma non riesce a trovarli. L’Arbeitsamt gli ha dato 47 nomi, ma si sono presentate solo due donne, una malata cronica, e l’altra con problemi familiari. Altri quattro si sono candidati, ma volevano lavorare a nero per non perdere il Bürgergeld.
È inaccettabile, commenta il ministro Heil. Su quanti ricevono il reddito i disoccupati sono un milione e 700mila, e altrettanti sono i posti vacanti. Ma un milione e mezzo non hanno alcuna preparazione, non sono in grado di svolgere alcuna attività, e molti profughi non conoscono la lingua, e rifiutano di seguire i corsi di tedesco.
Essen, nella Ruhr, ha 595mila abitanti, contando anziani e bambini, e 89mila ricevono il Bürgergeld, di questi solo 25mila sarebbero in grado di lavorare. L’Ufficio del lavoro tuttavia comunica che metà delle offerte non riceve risposta, soprattutto da parte dei giovani.
(Articolo pubblicato su Italia Oggi)