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La farlocca concorrenza tra Rai e Mediaset

La difesa del canone Rai unisce i vertici dell'azienda di Viale Mazzini e i vertici di Mediaset. Che strano... La lettera di Teo Dalavecuras

Caro direttore,

è vero che il “sillogismo” dell’amministratore delegato Roberto Sergio secondo cui “La Rai è servizio pubblico, ma emette bond quotati, ha 12mila dipendenti” e quindi “ha bisogno di risorse certe, non messe in discussione quotidianamente” è vistosamente zoppicante. Anche le aziende private emettono “bond quotati” e possono avere ben più di 12 mila dipendenti a libro paga. Per dire, Esselunga di dipendenti ne ha almeno 25mila ed esercita un’attività sicuramente di grande interesse pubblico, tanto da essere regolamentata nei minimi dettagli. E di imprese che possano contare su “risorse certe” – qualunque cosa significhi una locuzione così vaga – non se ne conoscono.

Purtroppo, questo non significa che Sergio non sia “loico”, per dirla all’antica. Per quel che ne so io potrebbe leggere tutte le sere un paragrafo del Tractatus logicus-filosoficus prima di prendere sonno. Dico purtroppo, perché il problema è che la qualità dell’argomentare in pubblico, a tutti i livelli, è stata irrimediabilmente compromessa dal morbo del linguaggio della pubblicità. Salvo rarissime eccezioni in via di estinzione, tutti i protagonisti del discorso pubblico a cominciare dagli operatori dell’informazione, di cui Sergio, sia pure a livello molto elevato, può considerarsi un esponente, fino ai massimi vertici della società italiana, si esprimono, quale che sia il peso dell’argomento, come un medio copywriter alle prese con la formulazione verbale di un messaggio pubblicitario della Volkswagen piuttosto che della Ferrero (detto senza nessuna intenzione di offendere questi ultimi).

Ma questo riguarda la forma, cui personalmente sono molto interessato ma non al punto di infliggerla al lettore per più di dieci righe. La sostanza come ovvio è un’altra, è il fatto che dopo più di trent’anni si è chiuso il cerchio che ha iniziato a disegnarsi con la “discesa in campo” del Cavaliere.

Quando Berlusconi intraprese la sua inaspettata carriera politica nel gennaio del 1994, tutti lo conoscevano per un ambiziosissimo, assai accorto uomo d’affari e imprenditore legato a Bettino Craxi ma amico di tutti i politici in tutti i partiti (com’era logico fosse l’immobiliarista di Milano Due e a maggior ragione il padre padrone di Canale 5). “Un venditore di simpatia” (oggi si direbbe ahimè di “empatia”) come lo definì in una conversazione privata di anni fa un importante imprenditore milanese.

Anche nella discesa in campo Berlusconi fu fedele alla propria filosofia: ebbe cura di “vendere” la sua decisione, con largo anticipo, ai vertici dell’Italia che contava allora, ottenendo le necessarie benedizioni. Del resto, per l’establishment c’era motivo di puntare sul Cavaliere. Secondo indebitato d’Italia per entità dei debiti, Berlusconi era oggettivamente ostaggio del sistema bancario, quindi dell’establishment, anche se non ne faceva ancora e in fondo mai ne avrebbe fatto parte a pieno titolo. Da un altro punto di vista, a quattro anni dal crollo del Muro di Berlino, quell’ex Pci ribattezzato Pds, sopravvissuto alla moria degli altri partiti della Prima Repubblica, poteva essere visto come una mina vagante. Risultato, durante la prima campagna elettorale nessun media importante, a cominciare dal Corriere della Sera, fece molto caso al fatto che Forza Italia era la creatura di un personaggio legatissimo a Craxi, principale vittima sacrificale di Mani Pulite che proprio in quell’epoca viveva la vittoria della propria “rivoluzione”, semmai si inarcavano le sopracciglia per il suo ruolo di padrone della tv commerciale italiana che ormai teneva testa alla Rai senza essere controllabile con gli elaborati meccanismi giuridici sviluppati per quest’ultima. Sulle ceneri della Prima Repubblica di cui il suo fondatore era stato un protagonista, Forza Italia vinse le sue prime elezioni.

La “corrispondenza di amorosi sensi” tra Berlusconi e l’establishment (e quindi i media mainstream) durò poco. La rottura definitiva arrivò pochi mesi dopo l’affermazione elettorale, degenerando subito in guerra giudiziaria nel dicembre del 1994, con l’avviso di garanzia a Berlusconi, “notificato” al Corriere della Sera otto ore prima della notifica personale a Berlusconi presidente del Consiglio nel bel mezzo di un evento politico internazionale a Napoli. La “vendetta” del Cavaliere fu un po’ tardiva ma radicale: nel luglio 1996 Mediaset veniva ammessa alla quotazione alla Borsa di Milano sulla base di una capitalizzazione che permetteva all’azionista di controllo (il Cavaliere) di azzerare con uno schiocco di dita l’indebitamento del gruppo. E così i conti tra il Cavaliere e l’establishment erano chiusi, almeno sul piano finanziario, con un uno a zero a vantaggio dell’”uomo di Arcore”, come era stato ribattezzato dai suoi più affezionati antipatizzanti.Ma la guerra continuò a lungo nelle aule giudiziarie, nei relativi corridoi e sulle pagine dei giornali, mobilitando anche intellettuali di primissimo ordine come il giurista-scrittore Franco Cordero e finendo per spaccare in due l’Italia. Coinvolse inevitabilmente anche Viale Mazzini.

A ripensare a quelle vicende oggi è come se fosse passato un secolo. Sta di fatto che oggi viviamo in un altro mondo, dove né una guerra tra pubblico e privato, né una crociata contro il canone della Rai o a favore de servizio pubblico hanno più senso. Gli eredi del Cavaliere dimostrano di averlo capito. L’ad della Rai pure. Matteo Salvini invece no, ma avrà sicuramente i suoi buoni motivi

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