Giovedì 10 agosto, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto legge, si è chiusa la prima fase della vicenda dell’imposta straordinaria sulle banche. Il fatto che la relazione tecnica – caso più unico che raro, pur ammissibile – non faccia nemmeno una previsione (“per prudenza”) sui proventi di quest’imposta non fa che aumentare i dubbi che erano sorti a proposito delle abborracciate modalità con cui è stata annunciata lunedì sera. Vorremmo sbagliarci, ma ha tutto il sapore di un’uscita agostana buona per animare le chiacchiere sotto l’ombrellone o nelle baite e catturare l’attenzione mediatica che l’opposizione stava conquistando incalzando il governo su salario minimo e reddito di cittadinanza.
Insomma, qualcosa di simile al famoso “a brigante, brigante e mezzo”.
Ma non si può scherzare col fuoco. Soprattutto quando si parla di società quotate che gestiscono il risparmio ed i pagamenti degli italiani, è un metodo che non paga, anzi crea danni.
Annunciare in conferenza stampa lunedì sera un’imposta del genere, senza farla uscire in Gazzetta Ufficiale la sera stessa – come fece Giuliano Amato quando nel luglio 1992 prelevò il sei per mille dai conti correnti degli italiani – non ha potuto fare altro che seminare incertezza tra gli investitori che si sono interrogati su quale avrebbe potuto essere il carico fiscale che abbatterà gli utili e quindi il valore di Borsa delle azioni delle banche coinvolte. La certezza giuridica è tutto in questi casi. Invece nulla, oltre al comunicato stampa del Consiglio dei ministri terminato alle 20:31 di lunedì. E così per tutta la giornata di martedì le azioni delle banche hanno registrato pesanti ribassi che hanno portato l’indice settoriale ad arretrare del 6% circa perdendo 900 punti. Quando poi martedì alle 19:55 è giunto il comunicato del Mef che ha aggiunto l’essenziale tassello, di cui non c’era traccia appena 24 ore prima, costituito dal tetto all’importo che poteva gravare su ogni singola banca (0,1% dell’attivo), ieri i calcoli hanno cominciato ad essere più fattibili e definiti e quello che sembrava l’esibizione muscolare di Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri si è ridimensionata, con impatti non catastrofici sui conti delle banche. Venerdì sera l’indice settoriale ha mostrato un recupero di poco più della metà del calo registrato lunedì.
Ma ormai la frittata è stata fatta e, come prevedibile, per tutta la settimana Financial Times, Reuters e Bloomberg hanno imperversato parlando di “confusione”, “marcia indietro”, “perdita di credibilità”. Addirittura prospettando scenari di crisi di governo. Non attendevano altro ed il governo gli ha offerto maldestramente il fianco. Abbiamo fatto una simulazione sui conti di Credem, una delle banche più solide e redditizie d’Europa, con un perimetro sostanzialmente nazionale più facile da analizzare (anche se è parzialmente fuorviante analizzare i dati del bilancio consolidato), ed abbiamo stimato che, se nel secondo semestre 2023 il margine di interesse fosse pari a quello del primo, la sovraimposta graverebbe per 216 milioni. Ma con il tetto, estratto come un coniglio dal cilindro dal ministro Giancarlo Giorgetti, si scende a circa 65 milioni. Poco meno della metà delle imposte gravanti sul gruppo nel 2022 ed una frazione dei 299 milioni di utile netto del primo semestre 2023. Banca Generali, per fare un altro esempio, ha dichiarato un impatto di poco meno di 20 milioni.
Eppure c’erano tutte le premesse per fare bene. Una sovraimposta è una scelta che ha solide fondamenta sia dal punto vista economico che giuridico. Inoltre è un dato oggettivo che le banche abbiano beneficiato, a partire dal secondo semestre 2022, di un eccezionale incremento del margine di interesse perché hanno potuto da subito adeguare i tassi dei loro prestiti e nicchiare nell’aumentare i tassi corrisposti sui depositi. Il risultato è negli annunci delle semestrali di questi ultimi giorni, in cui gli utili netti delle principali banche italiane sono aumentati dal 40% al 100% rispetto al primo semestre 2022.
Il governo ha correttamente scelto di fare il confronto tra 2023 ed il 2021 (è improbabile che il confronto tra 2022 e 2021, pure possibile, restituisca valori superiori) superando quindi il difetto della retroattività dell’imposta, pur violando comunque l’articolo 4 dello Statuto del contribuente. In questo modo è stato superato uno dei difetti del “contributo straordinario” a carico delle imprese del settore energetico varato dal governo Draghi nel marzo 2022, con gettito disastroso rispetto alle previsioni, calcolato invece su periodi pregressi. Positiva anche la scelta del margine di interesse (dato esposto in bilancio e non da calcolarsi ex novo) come base di calcolo, invece dell’improbabile ricorso ai dati IVA fatto nel 2022.
Restano invece tutte da superare le obiezioni poste dalla Corte Costituzionale nel 2015, giudicando la Robin Hood Tax introdotta dal governo Berlusconi nel 2008. La cui bocciatura fu soprattutto determinata dalla scelta di renderla permanente, operata dal governo Monti. Quella sentenza ci insegna che in astratto è possibile derogare al principio di capacità contributiva ed uguaglianza ed istituire un’imposta, seppure temporanea, che agisca sui profitti in eccesso (cosiddetti guadagni “immeritati”), ma ci deve essere un’adeguata motivazione, riconducibile a situazioni eccezionali di carattere esogeno (come una guerra) e la sovra imposta deve essere disegnata in modo coerente rispetto al fine. Qui invece siamo in presenza di effetti di un fenomeno normale, come quello dei tassi che salgono e scendono (ricordate i tassi negativi?) in relazione alla congiuntura economica. Secondo la Corte “ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione”. È inoltre tutto da dimostrare che l’eccedenza del margine del 2023 rispetto al 2021 sia idonea misura del profitto in eccesso. Infatti, dove sta scritto che il 2021 è stato un anno di redditività “normale”, come richiesto dalla Corte? Ricordiamo infatti che le banche pagavano per depositare la loro liquidità presso la Bce o investire in titoli di Stato a breve e non hanno mai applicato tassi negativi sulla raccolta presso i risparmiatori. Inoltre, il testo depositato dal governo non affronta un’altra dei motivi di censura di quella sentenza, cioè la presenza di adeguati meccanismi di controllo per impedire alle banche di traslare a valle sui correntisti il maggior carico fiscale. La Robin Hood Tax ce li aveva e la Corte li giudicò inefficaci. In questo caso nel decreto legge non ce n’è nemmeno l’ombra. Cosa dirà la Corte?
Sono nodi che verranno al pettine. Nel frattempo, sotto l’ombrellone non ci si annoierà.