Con la riunione di ieri sera che ha approvato il progetto di bilancio 2023 con una perdita netta da 230 milioni di euro, si è chiuso l’ultimo atto della famiglia Benetton in Benetton. O almeno, nell’omonimo marchio di abbigliamento, il cui nuovo board non prevede nessun membro della dinastia veneta, ma solo manager.
Tutto era cominciato qualche giorno fa con l’addio e le pesanti accuse di Luciano Benetton all’ormai ex amministratore delegato Massimo Renon, a cui succederà Claudio Sforza. Ma, come osserva il Sole 24 Ore, siamo sicuri che la crisi sia iniziata allora?
Non proprio. Stando infatti al quotidiano economico, i problemi dell’azienda di Ponzano Veneto risalgono e sono il risultato di una serie di errori nella gestione di varie criticità che si sono presentate dalla fine degli anni ’90 ma che hanno particolarmente risentito dell’inadeguatezza di Benetton a reggere il confronto con la rivoluzione nella moda dettata dai colossi H&M e Inditex, sottolinea la giornalista Giulia Crivelli che sul Sole 24 Ore segue il settore da tempo.
I PROBLEMI MONDIALI COMUNI A TUTTI I BRAND DI MODA…
Benetton, come tutte le aziende dell’industria della moda, ha dovuto affrontare varie difficoltà, dalle quali però gli altri sono usciti. Guardando indietro nel tempo, Il Sole ricorda le conseguenze economiche provocate dall’11 settembre, dal crac Lehman del 2008 e più recentemente dal Covid. Fino alle contemporanee sfide poste dalla transizione ambientale e dalla maggiore attenzione che le nuove generazioni riservano a scelte più responsabili anche per quanto riguarda l’abbigliamento.
A tutto questo Benetton deve anche aggiungere il danno di immagine legato “al crollo del ponte Morandi e alla (non) gestione della crisi reputazionale che ne è seguita” perché, nonostante quanto detto in passato dal fotografo Oliviero Toscani – “A chi interessa che caschi un ponte?” -, a qualcuno evidentemente è interessato.
…E QUELLI CHE BENETTON NON HA SAPUTO AFFRONTARE
Ma come sottolinea Il Sole 24 Ore, “l’incapacità di risollevarsi è legata a ragioni e scelte interne, non a imprevisti nazionali o globali”.
Le prime falle, secondo l’articolo del quotidiano economico, risalgono ai cambiamenti innescati dalla globalizzazione. Benetton infatti, come molti altri brand di fascia media, “delocalizzò pesantemente in Asia, proteggendo i margini ma senza abbassare i listini, scelta che si trasformò in boomerang quando, nel 2013, oltre 1.100 lavoratrici sottopagate (eufemismo) morirono nel crollo di una fabbrica in Bangladesh che produceva per decine di marchi occidentali, tra i quali Benetton, che però fu tra i meno decisi ad affrontare la questione della trasparenza delle filiere e della sostenibilità sociale, un tema che oggi è tornato con prepotenza anche grazie alle recentissime norme europee”.
Poi nei primi anni Duemila è stata la volta della “rivoluzione portata da internet nella distribuzione (si pensi all’e-commerce) e nella comunicazione, che nell’industria della moda è stata più difficile da affrontare rispetto ad altri settori”.
H&M E INDITEX SEGNANO L’INIZIO DI UNA NUOVA EPOCA
Il colpo più duro però arriva con lo sbarco in Italia di due big della moda europei: gli svedesi di H&M, proprietaria di Cheap Monday, Cos, Monki, Weekday, & Other Stories, e gli spagnoli di Inditex con Zara, Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius, Oysho, Zara Home e Uterqüe.
Per Il Sole, è alla gestione della competizione con questi due colossi che si attribuiscono “i rimpianti maggiori”. H&M e Inditex che hanno aspettato ad aprire in Italia proprio per timore del confronto con Benetton non hanno invece fatto minimamente fatica ad ambientarsi: “Tra il 2013 e il 2023 il fatturato di Inditex è più che raddoppiato, da 16,7 a 35,9 miliardi; quello di H&M da 14 a 21 miliardi”, afferma l’articolo.
Benetton non ha saputo tenere il passo e nemmeno prendere ispirazione (o semplicemente copiare). Come osserva Il Sole, “mentre H&M investiva in mini collezioni con stilisti legati all’alta gamma, come Karl Lagerfeld, Benetton decideva di sfilare a Milano e, negli ultimi anni, di affidarsi a un direttore creativo anziché a un team interno disposto a restare anonimo” e “mentre Inditex segmentava i marchi con attenzione (da Zara e Bershka, fino all’intimo di Oysho), Benetton alzava il posizionamento di Sisley”.