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Il fisco Usa chiede a Microsoft 29 miliardi di tasse non pagate

Microsoft ha affermato che la disputa con il fisco americano riguarda il trasferimento delle entrate attraverso giurisdizioni internazionali, una pratica chiamata «condivisione dei costi». Tutti i dettagli

Tempi duri per le Big Tech americane che qualche lustro fa sembravano quasi poter operare al di sopra della legge mentre nell’ultimo periodo devono vedersela con un’autorità antitrust statunitense molto più combattiva che in passato e pure con un fisco più zelante. Tutti ricordano ancora che l’Unione europea nel 2016 aveva ordinato ad Apple di pagare 13 miliardi di euro di tasse arretrate. Non sempre alla richiesta segue il pagamento. Anzi, quasi mai, perché naturalmente le Big Tech usano tutti i mezzi in loro potere per opporvisi. Nel caso di specie, per esempio, Bruxelles aveva poi perso l’appello ed è tutt’ora in attesa dell’esito di un ulteriore giudicato. Ora negli Usa sta accadendo qualcosa di molto simile a Microsoft, che si è vista recapitare dall’Internal Revenue Service (Irs), il fisco statunitense, una cartella esattoriale a dir poco pesante, da 29 miliardi di dollari.

I GUAI COL FISCO USA DI MICROSOFT

Il fisco a stelle e strisce contesta al colosso fondato da Bill Gates di non aver pagato tasse dal 2004 al 2013, da qui il conteggio stratosferico (per comprendere meglio la portata, si pensi che in media il nostro Paese vara finanziarie annue di 20 miliardi) comprensivo di interessi e sanzioni.

LA REPLICA DI REDMOND

Microsoft, comunque, farà ricorso. “Crediamo fermamente di aver agito in conformità con le norme e i regolamenti dell’Irs e che la nostra posizione sia supportata dalla giurisprudenza”, ha dichiarato la società in una nota, non prima di aver ricordato di aver pagato oltre 67 miliardi di dollari in tasse agli Stati Uniti dal 2004. Come a dire: il fisco Usa sta bussando alla porta di un contribuente fedele, ma non tiri troppo la corda.

Pare che la divergenza di calcolo tra Microsoft e il fisco Usa nasca dalle modalità attraverso le quali Redmond ha distribuito i profitti attraverso giurisdizioni internazionali, durante il periodo in esame. Una pratica chiamata “condivisione dei costi” e utilizzata da molte grandi multinazionali. Negli aggiustamenti proposti, inoltre, spiega l’azienda, non si riflettono le tasse pagate da Microsoft ai sensi del Tax Cuts and Jobs Act (TCJA), che potrebbero ridurre l’imposta finale dovuta in base all’audit fino a 10 miliardi di dollari.

E LE TASSE NON PAGATE IN ITALIA?

C’è poi l’annosa questione delle tasse non pagate in Italia, divenuta nei talk show televisivi ritornello politico ogni volta che qualcuno avanza l’idea di una riforma del fisco che preveda maglie più strette (“Invece di controllare gli scontrini, il fisco se la prenda con le Big Tech…”).

Ha un suo fondamento perché secondo l’annuale analisi di Mediobanca sui colossi del Websoft, relativa al 2022, sono oltre 36 i miliardi di imposte non versate grazie alla capacità delle Big Tech di scegliersi il campo da gioco preferito, con le regole fiscali più convenienti. Lo fanno, secondo lo studio, tutte e le 25 maggiori società che operano da Internet al software.

UNA EUROPA POCO UNITA

Da questo punto di vista, un aiuto inatteso a questi colossi arriva dai 27 Paesi dell’Ue che nonostante facciano parte del medesimo mercato hanno scelto di mantenere ciascuno tassazioni differenti.

Non a caso anche nell’ultima edizione del report viene sottolineato che nel 2021 circa il 30% dell’utile ante imposte delle 25 maggiori Websoft mondiali è stato tassato in Paesi a fiscalità agevolata, con conseguente risparmio fiscale di 12,4 miliardi di euro, che sale a 36,3 miliardi nel triennio 2019-2021.

Secondo l’indagine, l’aliquota media risulta pari al 15,4% nel 2021, inferiore a quella teorica del 21,9%. Nel periodo 2019-2021 la tassazione in paesi a fiscalità agevolata ha determinato per Tencent, Microsoft e Alphabet un risparmio fiscale rispettivamente di 13,4, 6,9 e 5,2 miliardi. Per loro è un risparmio, per il nostro fisco tutto mancato gettito. In periodi come questi, in cui si è appunto sotto legge di Bilancio e il governo fatica a trovare i 20 miliardi di cui sopra, bisognerebbe pensare a nuovi modi più stringenti per imbrigliare questi maxi campioni fiscali.

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