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Qual è il vero stato di salute dell’industria in Germania: diagnosi e prognosi

Da una recente analisi dell'Handelsblatt che si basa sui primi dati definitivi del 2024, si rilevano il quadro della crisi industriale, il suo impatto sull'occupazione, le difficoltà strategiche delle imprese e la loro fuga all'estero, i barlumi di speranza per alcuni settori di nicchia e le aspettative per il nuovo governo.

L’apparenza, a volte, inganna. Se si guardasse ai record sfiorati nelle precedenti settimane dal Dax, l’economia tedesca sembrerebbe tornata ai tempi d’oro degli anni Dieci di questo secolo e assai lontana dalla crisi di questi ultimi tempi. Sotto la superficie sfavillante del Dax si nasconde in verità una realtà ben più fragile, quella di un gigante che si è riscoperto con i piedi d’argilla. Le grandi aziende del listino prosperano, è vero, ma il loro successo è scritto lontano dai confini nazionali, con quasi l’80% del fatturato generato all’estero, in mercati vivaci come l’America, mentre il cuore industriale domestico langue, schiacciato da un mercato interno troppo debole per reggere il passo.

È un paradosso che un’approfondita analisi dell’Handelsblatt mette in luce con chiarezza: i numeri inediti del 2024 dipingono un’industria in affanno, con un calo del fatturato di 83,6 miliardi di euro, pari al 3,8%, che si somma a una serie di trimestri negativi, sei per la precisione, come certificato dal barometro industriale di EY. Ed è con questa realtà che il governo di piccola-grande coalizione guidato da Friedrich Merz dovrà fare i conti.

UN’INDUSTRIA IN APNEA

I dati, elaborati su base statistica ufficiale, non lasciano scampo: il 2024 è stato un anno nero per i settori nevralgici. L’automotive, con i suoi 760.000 lavoratori, ha visto le vendite crollare del 5%, il metallurgico del 5,1%, e l’elettrotecnico addirittura del 7,5%. Il quarto trimestre ha accelerato la caduta, con un -6,5% per l’industria delle quattro ruote, stretta tra guerre commerciali, una Cina in rallentamento e le minacce (peraltro ora avveratesi) di dazi americani, come sottolinea il quotidiano economico. Questa debolezza non è solo un dato contabile: si riflette in una crisi di profitti che erode la capacità delle aziende di resistere, mettendo a rischio la tenuta occupazionale di un sistema che fino a poco tempo fa (si ricordino le stime post pandemia degli istituti di ricerca) si aggrappava alla speranza di una ripresa veloce. Poi la guerra russa in Ucraina ha radicalmente cambiato le carte in tavola, evidenziando e aggravando le debolezze sistemiche dell’industria tedesca. Che ora è per di più chiamata alla prova dei dazi trumpiani.

TAGLI INEVITABILI

La novità più amara sta nei numeri dei posti di lavoro. L’occupazione era rimasta stabile durante tutto il periodo della crisi pandemica e a lungo ci si era illusi che il mercato del lavoro potesse sopportare la crisi, complici anche le tendenze demografiche e una cromica mancanza di manodopera, qualificata e non. Ma se fino al primo semestre del 2024 il calo occupazionale è stato contenuto (-0,4%), a fine anno la scure si è fatta più pesante, con un -1,2% che prelude a una tempesta.

“Le aziende hanno provato a tenere duro, ma la crisi è ormai strutturale”, spiega Jan Brörhilker di EY all’Handelsblatt, prevedendo la perdita di altri 100.000 impieghi entro il 2025. I giganti non esitano: ZF taglierà tra 11.000 e 14.000 posizioni, Bosch oltre 12.500, Thyssen-Krupp 5.000, e Volkswagen progetta di dimezzare 35.000 posti entro il 2030. Anche l’ingegneria meccanica, pilastro del made in Germany, si piega: un’azienda su quattro, secondo la VDMA, ridurrà il personale, nonostante un calo ancora lieve (-0,7%) nel 2024. La strategia è chiara: adattare le capacità a una domanda anemica, un processo che, per Brörhilker, è solo all’inizio.

FUGA VERSO L’ESTERO

Non è solo una questione di tagli, ma di orizzonti. Le aziende inseguono i mercati floridi, voltando le spalle a una Germania penalizzata da energia costosa, tasse alte e burocrazia asfissiante. Mercedes, come avevano rivelato nei giorni scorsi i media tedeschi, limiterà la produzione interna a 300.000 auto, evitando chiusure ma spostando il baricentro verso l’Europa orientale e gli Stati Uniti, dove i costi sono più bassi e la domanda regge. A Kecskemet, in Ungheria, la casa di Stoccarda produce al 70% in meno rispetto alla madrepatria, e la quota di produzione estera raddoppierà al 30%. Il gigante chimico BASF segue a ruota, riducendo l’output energetico-intensivo a Ludwigshafen per investire in America e anche in Cina, sorda alle pressioni del ministro dell’Economia del governo semaforo Robert Habeck che invitava a ridurre gli investimenti cinesi e a dirottarli magari su altre piazze asiatiche, meno sensibili da un punto di vista politico.

“L’energia cara spinge le aziende altrove”, nota Jan Viebig di Bank Oddo BHF, un trend che i dazi minacciati da Trump potrebbero aggravare, con Oxford Economics che nelle sue previsioni stima un impatto fino a -0,4% sulla crescita tedesca nel 2026.

LUCI ALL’ORIZZONTE

Eppure, non tutto è perduto, conclude l’Handelsblatt. Il chimico-farmaceutico resiste meglio, con un calo dell’1,5% ma segnali di risalita (+0,6% nell’ultimo trimestre), e il settore guarda al 2025 con un ottimismo cauto, sperando in una crescita del 2%, anche rassicurata da impatti deboli o nulli (almeno nella prima fase) su questi settori dei dazi di Trump. La Bce offre un altro spiraglio: con l’inflazione in calo, i tassi scesi al 4,3% da oltre il 5% rendono i prestiti più accessibili, stimolando investimenti: anche questo fattore però dovrà scontare l’ondata di dazi. E poi c’è il Mittelstand, la classe media industriale che, come osserva Arne Tölsner di Capital Group, sa adattarsi, forte di 1.500 “campioni nascosti” che dominano nicchie globali. Il nuovo governo dice di voler guardare soprattutto alle aziende del Mittelstand per innescare il rilancio industriale. Friedrich Merz è chiamato a una prova cruciale: abbassare i costi energetici e fiscali, frenare la giungla burocratica che ha imbrigliato la vita delle imprese e fermare la deindustrializzazione. Dal suo successo dipende il destino economico della Germania.

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