“Le ossa dei Caprotti” (Una storia italiana di Giuseppe Caprotti) è un libro sicuramente da leggere. È la storia di una grande impresa familiare e dei suoi protagonisti raccontata per quello che è stata. Leggendola tutta di un fiato mi è venuto in mente Fabrizio De André. “Cominciò con la luna sul posto e finì con un fiume di inchiostro è una storia un poco scontata, una storia sbagliata”… Probabilmente non serviva un libro per sapere che Bernardo Caprotti non fu uno stinco di santo e che Giuseppe Caprotti era una persona per bene. Se ci si potesse fermare qui si prenderebbe atto della verità di un protagonista di quella famiglia che per oltre vent’anni ha cercato di emergere in una situazione oggettivamente difficile. Sottolineando, ovviamente, la mancanza di un diritto di replica del bersaglio principale del libro, Bernardo Caprotti, che non può esserci per ovvie ragioni. Fatti raccontati e spiegati meticolosamente che hanno sconvolto la vita e il percorso professionale del primogenito dei Caprotti e che meritano rispetto da parte di chi legge.
LA SAGA DEI CAPROTTI, SECONDO L’ESPRESSO
L’Espresso già il 13 dicembre 2012 aveva descritto “una saga familiare, tra risse, tradimenti e drammi attraverso tre generazioni per il controllo di un gruppo da sei miliardi di euro” (oggi 8,5 miliardi ndr). Il libro riprende quel racconto proponendo ulteriori dettagli, particolari inediti, istantanee familiari che coinvolgono soprattutto una parte degli eredi e il loro complesso rapporto con il padre Bernardo. I confini tra interessi familiari, profili caratteriali e vicende personali, quando colpiscono gli interessi economici dei singoli familiari e si catapultano nelle aziende, ne minacciano quasi sempre stabilità e prospettive. Almeno fino a quando non si individua un percorso chiaro.
Non è un tema che coinvolge solo l’azienda di Pioltello. Va sottolineato, per evitare equivoci. Io penso che nessun imprenditore della GDO (e non solo) sia arrivato a costruire una sua realtà economica importante rispettando semplicemente le regole del gioco. Nella migliore delle ipotesi le ha interpretate, forzate, piegate a proprio favore. Su questo Caprotti senior è solo uno dei tanti. La spregiudicatezza ben descritta dal libro è un tratto caratteristico rintracciabile in molte situazioni. La differenza è che, la sua, è testimoniata e raccontata dal figlio. Un fatto senza precedenti. E questo agire fotografato quasi ossessivamente nel libro consegna alla solitudine il titolare di questi comportamenti circondato spesso da yes men interessati e adulatori. Ma anche da ottimi professionisti ad ogni livello dell’organizzazione aziendale. Esselunga li ha sempre avuti. Non è diventata quello che è, immeritatamente.
Vittorio Merloni, che per un lungo periodo non aveva voluto i figli in azienda, diceva che un padre non deve mai trovarsi nella condizione tragica di dover licenziare un figlio. Caprotti senior lo ha fatto ma non lo ha mai voluto ammettere. L’incompatibilità e la competizione tra padre e figlio però erano assolute. E non era solo un problema caratteriale. Era anche di visione dell’azienda e del suo futuro. Problema che travalica il caso in sé. Superata una certa età del fondatore i figli rischiano di essere plagiati o schiacciati dalla personalità e dalla credibilità conquistata del genitore. Sembra cinico affermarlo ma solo quando il passaggio generazionale avviene per tempo o per eventi traumatici che coinvolgono il fondatore in età meno avanzata, i passaggi generazionali sembrano funzionare. Oppure, come in questo caso, dove la seconda moglie di Caprotti, Giuliana, ha tenuto con lungimiranza la figlia lontana dall’epicentro dello scontro familiare proteggendola e agevolandola così nel perseguire i suoi obiettivi. Difficile non giudicare, questa, una strategia molto più efficace rispetto a quella adottata dall’altro ramo della famiglia.
ESSELUNGA RESTA UN CASO
È l’eterno dilemma della successione delle grandi e medie imprese a proprietà familiare, su cui pesano le ambizioni e i desideri degli eredi. Esselunga purtroppo non è diversa da tutte le altre che l’hanno preceduta. È non è la sola nella GDO. E anche quando, come ad esempio in Conad, si trova il modo di aggirare il problema attraverso lo strumento del consorzio tra cooperative, l’egocentrismo e l’incapacità a farsi da parte del singolo imprenditore, superata una certa età, rischia di minare alla radice anche i progetti più avanzati.
Esselunga resta un caso per la sua dimensione. Venuto meno il fondatore, il passaggio generazionale c’è comunque stato. Ritenuto penalizzante per una parte degli eredi ma accettato e condiviso con entusiasmo da chi ne ha beneficiato. L’altra parte, quella a cui è stata assegnata l’azienda, finisce così sotto i riflettori, non per quello che ha fatto o non ha fatto per farsi assegnare l’azienda, su quello c’è addirittura un accordo tra gli eredi, ma per quello che sarà in grado di fare dell’azienda stessa. Una grande responsabilità. Non solo per il contesto economico e geopolitico, difficile per tutti, ma per il paragone costante con la gestione del fondatore e con le performance realizzate dal fratello in un determinato momento storico. Dal “quando c’era LUI” di antica memoria al quando c’erano “LORO”… Un ombra che accompagnerà l’attuale gestione per lungo tempo.
L’attribuirsi meriti aziendali esclusivi è però la parte che mi convince meno del libro. Non perché non ci siano stati. I risultati raggiunti, i progetti realizzati, le difficoltà incontrate per far passare le proprie idee fanno parte del percorso manageriale di chiunque. Esselunga, nonostante le tensioni storiche, ben descritte nel libro, ha trovato, seppur con tempi più laschi rispetto alle aspettative, quasi sempre le sintesi necessarie dal punto di vista della gestione aziendale. E questo va anche a merito di Bernardo Caprotti e del suo entourage che, pur con grande fatica, si sono fatti convincere. Qualunque top manager può raccontare le difficoltà incontrate con le rispettive proprietà aziendali per far passare idee innovative. Capisco che per un figlio questo può essere diverso e ancora più difficile da digerire. Soprattutto se ci si sente messo sotto accusa costantemente per cose che ritiene ingiuste. Come, d’altra parte, posso capire che per un padre, pur di quel tipo, quando, ad un capolinea che sente ormai vicino, trova sul tavolo una proposta di acquisto della “sua” Esselunga da parte di una cordata con a capo il proprio figlio credo si certifichi come assolutamente inutile qualsiasi possibilità di dialogo.
COME (NON) SI MANIFESTA IL DISSENSO IN ESSELUNGA
Alcuni top manager, in Esselunga, vicini o lontani dalle bizze del proprietario, sono stati messi alla porta o hanno dovuto andarsene perché il “dissenso in azienda si manifesta solo con le dimissioni”. Caprotti senior, come Brunelli e molti altri imprenditori hanno fatto del “dividi et impera” un tratto caratteristico delle loro gestioni aziendali. Niente di nuovo sotto il sole, quindi. Infine occorre tornare in Esselunga che vive una fase di transizione e dove c’è sicuramente tensione. Inutile negarlo. La nuova proprietà sta cercando di impostare e di mettere a terra la propria visione del business. E questo crea fughe in avanti, reazioni, errori di valutazione sulle persone e avvicendamenti che ho già raccontato.
Questo libro che alcuni commentatori tenteranno (per ragioni evidenti) di tenere fuori dal contesto attuale dell’azienda peserà, al contrario, su di essa come un macigno. È l’elemento costante di paragone tra un erede mancato che non ha mai potuto dimostrare di poter guidare l’azienda in assenza del padre, pur ritenendosene all’altezza, e una erede legittimata dal padre che deve però ancora dimostrare di esserne in grado.
In questo, Bernardo Caprotti ha realizzato il suo capolavoro finale. In un caso o nell’altro, Esselunga, quella che abbiamo tutti apprezzato, era la “sua” e di nessun altro. Quella di oggi, come quella propugnata dal primogenito sarebbe stata comunque un’altra cosa. Per l’anziano leader il paradosso nella sua testa era chiaro da molto tempo: “Senza “il dottor Caprotti”, Esselunga non va da nessuna parte. E, con altri Caprotti, non arriva da nessuna parte”. Se aveva ragione o meno, lo scopriremo presto.