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Covid-19, Conte, i negozi e l’economia. Il Punto di Polillo

Il Punto di Gianfranco Polillo su numeri, stime e scenari non solo economici sull'epidemia di Covid-19

Finalmente e dopo molte insistenze, il Governo ha deciso quella sorta di coprifuoco generalizzato, che ha investito la chiusura di tutte le attività, salvo la produzione di quei beni ritenuti indispensabili: filiera alimentare, sanità, trasporti e via dicendo. È stata una scelta della politica o della collettività? Quesito interessante da rinviare ad un domani, quando tutto – perché di questo non abbiamo dubbi – sarà passato. A futura memoria è bene ricordare che questa decisione era stata già assunta, in modo spontaneo, da centinaia di operatori economici, specie nelle zone più colpite dal flagello epidemico. Scelta di buon senso: mantenere aperti gli esercizi commerciali o le altre attività rivolte al pubblico, quando quest’ultimo è costretto a rifiutare ogni contatto superfluo, significa solo alimentare momenti di totale frustrazione. Senza contare le perdite che si accumulano. Alle quali, tuttavia, il Governo ha deciso di far fronte con la sequela di decreti appena varati. Risorse, com’è noto, pari a 25 miliardi di euro.

Sarà una decisione risolutiva? Tutto dipenderà, ovviamente, dal decorso dell’epidemia sul territorio nazionale. Previsioni sul suo possibile sviluppo sono quanto mai difficili. Chi ha cercato di approntare modelli matematici, utilizzando tecniche alquanto sofisticate, è rimasto deluso. In genere questi esercizi sono portati a sottostimare o sovrastimare i possibili esiti, connessi con il decorrere dei giorni. Lo scorso 6 marzo, ad esempio, Il Giornale lanciava il grido d’allarme: “Coronavirus, l’algoritmo che allarma: “Entro domenica 14mila contagi”. Ed invece, nel giorno della festa della donna, i “positivi” sono risultati pari a 5.399. Insomma l’algoritmo messo in campo da Giuseppe De Nicolao, professore di analisi dei dati dell’Università di Pavia, ha mostrato un eccesso di pessimismo.

Il rebus non è solo statistico. Altrimenti Angela Merkel non se ne sarebbe uscita con una previsione terrificante: il Covid-19 può contagiare circa il 70 per cento dei tedeschi. Previsione che in Italia avrebbe fatto accapponare la pelle. Nessun dramma: quei dati si riferiscono al possibile contagio di una qualsiasi influenza. Nel caso del Covid-19, la successiva patologia riguarda invece solo il 15/20 per cento (percentuale comunque enorme) dei contagiati. La maggior parte di coloro che sono colpiti dal virus, in altre parole, sono in grado di sconfiggerlo grazie ai propri sistemi immunitari. Il più delle volte nemmeno si accorgono di averlo avuto. I più deboli ed esposti, invece, entrano invece nel tunnel della terapia.

Naturalmente sarebbe bello avere un screening dei cosiddetti asintomatici. Di coloro cioè che sono stati colpiti, non riportando visibili conseguenze. Ma sarebbe una cosa impossibile. Gli stessi tamponi, infatti, hanno un valore istantaneo. Fotografano la situazione del momento. Ma nulla lascia presagire per il futuro più immediato. Circostanza che spiega la necessità di non abusare di questo strumento diagnostico. Va applicato solo nel momento in cui si manifestano sintomi che inducono al peggio. Altrimenti si spreca solo tempo e denaro, contribuendo ad alimentare una psicosi collettiva, come già avvenuto in passato.

Statistiche e previsioni, in campo epidemiologico, devono quindi essere maneggiate con cura. Vale, soprattutto in questo caso, il principio universale secondo il quale ogni ricerca statistica ha un proprio fine. Altrimenti si scivola nel campo della semplice curiosità. Che nel caso specifico sarebbe gravida di negative conseguenze. Il problema del Covid-19 è uno e soltanto uno: la sua velocità di circolazione e di contagio. Da un punto di vista terapeutico, infatti, la sua pericolosità è più o meno identica a quella di un’influenza, per quanto perniciosa. Diventa mortale se crea un volume di malati tali da mettere in crisi l’intero sistema sanitario, specie nelle sue punte di eccellenza, come la rianimazione. Si tratta, in altre parole, di un problema di domanda e di offerta. Se la domanda di assistenza, cumulandosi, diventa eccessiva rispetto alle capacità dell’offerta, le conseguenze sono di tipo malthusiano.

A questi fini è bene, pertanto, prendere in considerazione solo il dato dei “positivi”, che rappresentano poco più del 90 per cento del totale, mentre i deceduti, in media, sono il 4,1 ed i guariti il 10,6 per cento. Finora il ritmo d’incremento dei positivi è stato pari in media al 28 per cento al giorno. Secondo un trend fortunatamente decrescente. Si è passati dal 39 per cento della media fino al 27 febbraio, al progressivo calo fino al 5 marzo. Ma da allora, purtroppo, il tasso di incremento è rimasto stabile intorno al 28 per cento. Un valore troppo alto, per essere accettato.

Per comprendere la logica spietata dell’interesse composto, bastano due semplici numeri. Se quel tasso di crescita non si ridurrà, tra sette giorni, il numero dei positivi sarà pari a quasi 60 mila persone. Che diverranno oltre 400 mila, tra 15 giorni. La data indicata dal Presidente del consiglio Giuseppe Conte, come momento della verità. Sono numeri sostenibili? Stando alle ultime percentuali, che indicano un tasso di ospedalizzazione del 55 per cento e di terapia intensiva del 10 per cento dei positivi, avremo quindi bisogno, da qui ad una settimana, di oltre 30 mila posti letto, nelle strutture sanitarie e di 6 mila nuovi ricoveri in rianimazione. Il tutto senza avere le capacità della Cina di costruire, in una settimana, nuovi ospedali. Quanto alla data monstre indicata da Conte, inutile pensarci. Vale, in questo caso, la lugubre profezia di John Maynard Keynes. Nel mezzo di una virulenta epidemia, il “lungo periodo” è solo una macabra astrazione.

 

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