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Come cambierà il commercio internazionale con le nuove tariffe Usa

Che cosa succederà nel mondo con le nuove tariffe commerciali Usa decise da Trump. L'analisi di Anthony Willis, Investment Manager di Columbia Threadneedle Investments

Recentemente, l’attenzione del mondo intero è stata completamente dominata dal tanto atteso discorso sui dazi reciproci del Presidente Trump e dalle conseguenze che questo ha generato. Trump ha annunciato l’introduzione di misure severe per “liberare” l’economia statunitense, prevedendo un dazio del 10% da applicare a quasi tutte le importazioni americane a partire dal 5 aprile. Inoltre, il Presidente ha annunciato l’introduzione di tariffe “reciproche”, in vigore dal 9 aprile, sui beni dei “peggiori” partner commerciali degli Stati Uniti, prendendo di mira un sistema che, a suo dire, ha “derubato” gli Stati Uniti per decenni. Di conseguenza, le tariffe sulla Cina saliranno a oltre il 54%, dopo l’imposizione di un dazio del 34%, che si somma a quello del 20% imposto all’inizio di quest’anno. L’Ue dovrà pagare un dazio del 20%, il Giappone del 24% e l’India del 26%. Messico e Canada sono stati risparmiati e sono stati esentati i prodotti conformi all’accordo commerciale USMCA. Il Regno Unito dovrà invece affrontare “solo” il dazio globale del 10%. L’amministrazione statunitense ha dichiarato l’emergenza nazionale “a causa delle preoccupazioni per la sicurezza nazionale ed economica derivanti dalle condizioni che si riflettono in ampi e persistenti deficit commerciali annuali degli Stati Uniti”.

Le tariffe avranno un impatto significativo sull’economia globale e i dazi statunitensi sulle importazioni raggiungeranno livelli registrati l’ultima volta negli anni ’30, in concomitanza con la Grande Depressione, quando i volumi del commercio mondiale erano una frazione di quelli attuali e le catene di approvvigionamento globali erano molto meno integrate. L’aliquota tariffaria effettiva (una media ponderata delle tariffe applicate a tutte le importazioni di beni statunitensi e che riflette le varie tariffe applicate a prodotti e paesi diversi) si colloca al di sopra delle aspettative e potrebbe superare il livello registrato negli anni ’30 se saranno applicate così come annunciate mercoledì.

Prima della scora settimana, il consenso si aspettava un livello di dazi effettivi intorno al 12-14%, ma allo stato attuale sembra plausibile un livello del 20-24%, anche se, come visto per il settore auto, molte variabili sono ancora in gioco e potrebbero esserci ulteriori dazi settoriali da annunciare. L’anno scorso il tasso tariffario effettivo era solo del 2,5%. Secondo le prime stime, la crescita degli Stati Uniti quest’anno potrebbe subire una perdita di 1-1,5 punti percentuali e l’inflazione potrebbe aumentare di 1-1,5 punti percentuali. Tuttavia, ciò non porterebbe ad una recessione negli Stati Uniti, ma ad una fase di debolezza della crescita accompagnata da un aumento dell’inflazione, una riduzione degli utili societari e un’ulteriore e significativo calo della fiducia dei consumatori e delle imprese, che a sua volta potrebbe avere un impatto negativo sulla crescita. In altri Paesi, in particolare in Asia, le economie che hanno prosperato diventando poli produttivi per l’esportazione negli Stati Uniti si trovano ora ad affrontare notevoli difficoltà. I i rischi per la crescita globale sono evidenti.

Il Presidente Trump ha dichiarato che le tariffe avrebbero permesso di raccogliere fondi per finanziare i tagli alle tasse e di stimolare una rinascita dell’industria manifatturiera nazionale. Supponendo che i volumi degli scambi commerciali restino invariati, si stima che queste misure tariffarie potrebbero generare fino a 600 miliardi di dollari, circa il 2,2% del PIL e il doppio dell’aumento delle tasse più grande nella storia moderna degli Stati Uniti. L’Istituto Peterson per l’Economia Internazionale ha stimato che questi dazi rappresentano complessivamente “il più grande aumento delle tasse in almeno un’intera generazione” e costerebbero alla famiglia media statunitense più di 1.200 dollari all’anno.

I dazi hanno un effetto fondamentalmente stagflazionistico, in quanto rallentano la crescita economica ed aumentano le pressioni inflazionistiche. È probabile che le aziende ed i consumatori rimangano in “attesa” mentre valutano l’impatto di queste tariffe. Le aziende dovranno inoltre scegliere se assorbire i costi dei dazi, che incidono negativamente sui loro guadagni, o cercare di trasferirli ai consumatori finali. Anche la Federal Reserve si trova di fronte ad una sfida in termini di politica monetaria, dato il probabile impatto negativo sulla crescita e la pressione al rialzo sull’inflazione. La Fed vorrà evitare che le elevate aspettative d’inflazione, già in aumento, si consolidino.

Una guerra commerciale globale è quindi inevitabile? Al momento non ci sono buoni presagi, ma non si tratterà di una guerra commerciale “globale”, quanto piuttosto di una guerra tra gli Stati Uniti e gli altri Paesi. Gli Stati Uniti sono un’economia relativamente chiusa, rappresentando circa il 15% della domanda finale di importazioni a livello globale, e non dominano il commercio come accade per la finanza globale o la spesa militare. Altri Paesi possono continuare a commerciare senza gli Stati Uniti: l’UE, i 12 membri del CPTPP asiatico, la Corea del Sud e altre economie aperte rappresentano il 34% della domanda globale di importazioni. In questi ultimi giorni abbiamo anche assistito alla formazione di improbabili alleanze: Cina, Corea del Sud e Giappone stanno infatti prendendo in considerazione una “risposta unificata” ai dazi statunitensi. I partner commerciali degli Stati Uniti dovranno scegliere con attenzione le loro risposte, dato che l’amministrazione Trump ha chiarito che qualsiasi ritorsione sarà accompagnata dall’imposizione di ulteriori dazi.

Le tariffe reciproche annunciate il 2 aprile si basano su un calcolo semplicistico del deficit commerciale degli Stati Uniti con ciascuna nazione. Il calcolo lascia spazio a chiarimenti e negoziazioni per coloro che sono in grado di accedere all’amministrazione statunitense e di influenzarla, un elenco probabilmente piuttosto ristretto di Paesi. Alcuni Stati potrebbero scegliere di rispondere con stimoli fiscali interni per compensarne l’impatto ed evitare un’ulteriore escalation tariffaria, mentre altri opteranno per una risposta più aggressiva. Il Segretario del Tesoro statunitense Scott Bessent ha dichiarato che “se si fanno ritorsioni, l’escalation sarà inevitabile. Se non si risponde, questo è il livello massimo”. Lo schema per le nazioni colpite sembra essere quella di negoziare prima e fare ritorsioni poi, ma non è chiaro se gli Stati Uniti saranno disposti a ridurre i livelli tariffari annunciati. Durante la prima presidenza Trump, le tariffe sembravano essere un mezzo per raggiungere accordi commerciali, mentre questa volta sembra essere all’opera una dottrina politica più ampia: il Presidente Trump è disposto ad accettare una transizione più difficile, incoraggiando il ritorno della produzione in patria e un’economia più chiusa. Se gli Stati Uniti si ritirassero davvero dal commercio globale, le conseguenze sarebbero significative e negative. Per evitare un impatto negativo sulla crescita economica, i negoziati dovranno essere rapidi.

La ritorsione della Cina, che venerdì ha imposto dazi del 34% sulle importazioni statunitensi, ha ulteriormente complicato la situazione. Tuttavia, si tratta di un problema che riguarda gli Stati Uniti contro il resto del mondo, più che una guerra commerciale globale. Il danno maggiore sarà comunque avvertito dall’economia statunitense e ritengo che queste mosse aumentino le possibilità che la Cina e l’Europa ricorrano maggiormente agli stimoli economici per compensare i danni causati dalle tariffe. I movimenti di mercato della scorsa settimana suggeriscono che stiamo assistendo ad una vera e propria liquidazione dei mercati. Nei prossimi giorni, quando vedremo se e quanto i Paesi vorranno negoziare con gli Stati Uniti, potremo capire quanto le cose potranno peggiorare. In assenza di informazioni più definitive e di una posizione politica del governo statunitense basata più sull’ideologia che sulla strategia economica, è probabile che le incognite continuino a pesare sulla propensione al rischio fino a quando non sarà possibile individuare un risultato più definitivo sull’entità, la portata e la durata di queste tariffe.

Le notizie negative, legate sia al rallentamento economico sia alla pressione sugli utili, appaiono in buona parte già incorporate nelle valutazioni di mercato. Riteniamo che possano emergere selettive opportunità di acquisto, ma in un contesto caratterizzato da elevata volatilità, occorre adottare un approccio prudente e monitorare le posizioni con attenzione su base quotidiana.

 

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