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Caro governo, devi attrezzarti con Bruxelles per evitare il baratro (vista anche la recessione in Europa)

Di fronte al baratro che si intravede per la fine dell’anno, il duellare sterile tra le diverse componenti parlamentari rappresenta un lusso che nessuno può ancora permettersi. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Le ultime previsioni del centro studi di Confindustria hanno avuto un’eco sorprendente. Non che il documento non lo meritasse. Ma è stato stupefacente vedere come alcuni esponenti dei 5 stelle abbiano accolto quella diagnosi. A differenza di quanto dissero a proposito delle (migliori) previsioni di Banca d’Italia, che comunque prevedevano un tasso di sviluppo seppur striminzito, in questo secondo caso – crescita zero – Luigi Di Maio, da New York dove si è recato, ci tiene a far sapere: “le preoccupazioni di Confindustria sono le nostre preoccupazioni. C’è un rallentamento in Europa, in particolare in Germania che condiziona anche la nostra economia, per esempio nel settore dell’automotive”. Per poi subito aggiungere che l’Italia “metterà la freccia” e risalirà dalle posizioni di coda in cui si è cacciata, puntando su investimenti e sblocca cantieri. Quasi uno scongiuro con le dita incrociate.

Naturalmente non andrà così. Se ci fosse ancora un minimo di probabilità, lo stesso Di Maio avrebbe dato una risposta diversa. Avrebbe detto, ad esempio, qualcosa di simile a quanto il Presidente del Consiglio sta ripetendo da settimane: “il rallentamento era previsto, ma bisogna aspettare la metà dell’anno, quando le misure adottate dal Governo avranno il loro effetto”. Un ritornello che fa sempre meno presa, di fronte al susseguirsi di dati negativi. Che, a loro volta, alimentano un pessimismo paralizzante. In economia non c’è nulla di peggio dell’incertezza. Il sentiment che brucia ogni possibile iniziativa. Che rallenta le decisioni di investimento. Che spinge le famiglie – quelle che possono – a risparmiare nel timore di tempi ancora peggiori. Meglio, quindi, un Governo che non opera, piuttosto che uno che invoca continuamente il “cambiamento” senza poi dimostrarsi capace di gestirne le relative fasi. Perché in questo caso si spaventa che ha da perdere, ma non si conquista chi dal cambiamento reale, e non solo annunciato, dovrebbe ricevere un beneficio.

Il referto di Confindustria non ha fatto altro che evidenziare quest’impasse. Certo il malessere è più generale. Riguarda l’intera Europa e c’è il rischio, come emerso nel corso della “Davos asiatica” – il Boao forum che si tiene nell’isola di Hainan – di qualcosa che possa somigliare alla grande crisi del 2008. Ma vi sarà pure una ragione se in Italia tutto è amplificato. Soprattutto è più persistente: destinato a perseverare in una dimensione quasi diabolica. Ed ecco allora spiegato, seppure in parte, l’eco di quel documento: recepito dall’opinione pubblica dopo un susseguirsi di segnali sempre più negativi. All’inizio, infatti, si poteva eccepire. Mettere in dubbio che le analisi condotte dai vari organismi interni ed internazionali fossero credibili. Ma quando la massa d’informazione converge verso un obiettivo univoco, le resistenze fasulle cessano di avere effetto. Ed allora non resta che prendere del dato di realtà, per quanto sgradevole essa possa essere.

Il che, comunque, è positivo. Costringe, infatti, a mantenere i piedi per terra e ragionare su un immediato futuro, senza farsi distrarsi dalle lusinghe di una “fase due”. Che semplicemente non esiste. Sulla testa del Governo giallo – verde pende, innanzitutto, il peso di un sistema economico, come quello italiano, che non riesce ad uscire da un “circolo vizioso”, in cui è precipitato fin dal 2012. Quando ha affidato le sue limitate possibilità di sviluppo, quasi esclusivamente, al traino della domanda estera. Che ha sua volta ha favorito un processo di riconversione produttiva a spettro limitato. Costituito cioè da quel gruppo di aziende, in maggioranza dislocate nel triangolo Milano – Bologna – Treviso, che sono state capaci di inserirsi nelle catene di valore che si sono sviluppate soprattutto a livello europeo. Ma fuori da quel perimetro, una crescente afasia.

La debolezza della domanda interna, che ha rappresentato il lato oscuro di questo processo, ha contribuito a favorire un accumulo di risparmio interno, mediamente corrispondente al saldo positivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, che non si è tradotto in investimenti. Ma ha preso la via dell’estero, creando sempre più l’immagine di un Paese che vive nell’indigenza – povertà e disoccupazione – pur navigando nell’abbondanza. Un antico paradosso: di cui, tuttavia, i responsabili della politica economica non sembrano voler tenere nel debito conto. Specie dopo l’abbandono di Paolo Savona, che pure queste cose le aveva studiate e dette. Si poteva tentare un’altra strada? Basta guardare alle prospettive del 2020 per trovare le necessarie risposte. Ogni possibile margine si è talmente ridotto, fino ad annullarsi. Al punto che si fanno sempre più forti le voci, specie da parte dell’opposizione, di possibili manovre correttive (tassa sui depositi o patrimoniale), per far fronte allo smottamento della finanza pubblica, che darebbero, tuttavia, un definitivo colpo di grazia.

Matteo Salvini ha quindi ragione, quando cerca di delineare – con il riferimento alla flat tax – uno scenario alternativo. Solo che evocare, semplicemente, questo obiettivo non basta. Specie in un contesto preelettorale che lo trasforma immediatamente in credito da millantare. Una coerente proposta di politica economica deve partire dall’analisi attenta e rigorosa degli squilibri macroeconomici che caratterizzano la realtà italiana. Sulla base dei quali costruire una strategia di breve e di medio periodo. E su questi punti confrontarsi con l’Europa, chiedendone la necessaria condivisione.

Da questo punto di vista, l’intervista che Ignazio Angeloni – per molti anni ai vertici della BCE – ha rilasciata ieri al Corriere della sera, risulta illuminante. “Se l’Italia – sostiene – si proponesse con un piano serio, anche sulla base di un aiuto europeo sottoposto ad un vaglio, l’Europa non si volterebbe dall’altra parte”. Eccesso di fiducia? Può anche essere. Ma dov’è la controprova? Il fatto è che un “piano serio”, riflettuto nelle sue determinati, serve innanzitutto alla società italiana nelle sue varie componenti: economiche, finanziarie, ma anche politiche. Perché di fronte al baratro che si intravede per la fine dell’anno, il duellare sterile tra le diverse componenti parlamentari rappresenta un lusso che nessuno può ancora permettersi.

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