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fiscale

Abrogare il patent box? No grazie

La cancellazione di fatto della misura per lo sfruttamento di beni derivanti da proprietà intellettuale danneggia la possibilità di pianificazione delle aziende e allontana gli investimenti esteri nel nostro Paese. La super-deduzione su Ricerca e Sviluppo, invece, va a penalizzare le Pmi. L'intervento di Edoardo Belli Contarini, tributarista, partner dello Studio Fantozzi

L’art. 6 del Decreto Fiscale reca la “semplificazione” della disciplina del patent box, ovvero il regime che prevede la detassazione del 50% dei redditi derivanti da software protetto da copyright, di brevetti industriali, di marchi d’impresa, di disegni e modelli, nonché di processi, formule e informazioni industriali.

A una prima e superficiale lettura, la rubrica e i primi nove commi della norma indurrebbero a pensare che il Governo si muova nel solco del recente disegno di legge delega, preordinato alla “revisione del sistema fiscale”, nel rispetto dei “principi costituzionali”, nonché del “diritto dell’Unione Europea”, con  gli obiettivi di “stimolo alla crescita economica” e di “semplificazione del sistema tributario”. Purtroppo, l’apparenza inganna: soltanto al decimo comma dell’art. 6, si scopre che non si tratta di “semplificazione”, bensì di abrogazione del patent box.

Verrebbe da chiedersi se una disposizione che cancella ex tunc una misura fiscale che funziona(va) possa risultare in contrasto con i principi costituzionali. Sembra un paradosso, una contraddizione in termini, ma la “semplificazione” – o meglio “l’abrogazione” a opera del citato art. 6 – porta con sé taluni effetti negativi.

Anzitutto, si tradisce il principio di affidamento, considerato che l’abrogazione della misura impatta sulla pianificazione, gli investimenti economici e finanziari effettuati dalle imprese in relazione agli IP, per i quali, tra l’altro, con l’introduzione dello stesso Patent Box, si intendeva agevolarne il rientro nel nostro Paese. E tale improvviso e imprevisto “cambio di regime” non potrà che disaffezionare – anche – gli investitori esteri, i quali, come è ovvio, confidano in un framework normativo stabile, che consenta di pianificare l’allocazione delle risorse su progetti e iniziative imprenditoriali di portata pluriennale.

Viene snaturato uno stimolo all’innovazione, trasformando un meccanismo che detassa(va) il reddito d’impresa attribuibile agli IP in uno strumento che premia l’attività di R&S in relazione agli stessi intangibles, con una “super-deduzione”, cioè con una maggiorazione del 90% dei relativi costi. In tal modo, però, verosimilmente non viene più beneficiata l’impresa che ottiene risultati positivi, ma quella che spende di più, a prescindere poi dalla performance.

Nella medesima prospettiva, si introduce un beneficio fiscale che appare selettivo e discriminatorio, poiché la “maggiorazione” dei costi del 90% premia le imprese di più grandi dimensioni, cioè quelle che sono dotate di cospicui capitali da impiegare in attività di R&S; tutto ciò a svantaggio quindi delle PMI, che in modo trasversale innovano in diversi settori, implementando gli IP con esborsi contenuti. Senza contare poi che, in base ai dati ISTAT, la media nazionale dei costi sostenuti dalle medesime PMI innovative in R&S si attesta soltanto all’incirca sull’1% dei ricavi.

Come accennato, viene abrogata, in modo inatteso, un’agevolazione che incentiva(va) (anche) le imprese non residenti che (ri)allocavano in Italia gli IP e quindi risultano ostacolati gli investimenti provenienti (pure) dagli altri Paesi dell’Unione Europea. In senso diametralmente opposto, in controtendenza rispetto alle finalità proprie del PB viene incentivato lo “spostamento” degli asset immateriali all’estero e il trasferimento della sede delle imprese verso giurisdizione di altri Stati, che invece tuttora contemplano il regime PB.

Dunque in modo troppo repentino, ondivago e poco razionale, viene azzerata una misura incentivante ormai sperimentata e proprio di recente persino rafforzata e per davvero “semplificata” a seguito della facoltà concessa ai contribuenti di determinare in maniera autonoma il beneficio, da indicare direttamente in dichiarazione, purché in presenza del set informativo “idoneo”, prescritto dal decreto di attuazione del 30 luglio n. 2019, n. 658445. E, ovviamente, tale eliminazione incide di riflesso anche sul versante del connesso e altrettanto collaudato regime di penalty protection, di converso adesso tutto da rielaborare in relazione al “PB semplificato”, in attesa dell’apposito decreto di attuazione da emanare dal direttore dell’Agenzia.

Come se non bastasse, viene cancellato anche il previgente “cumulo” tra detassazione PB e utilizzo in compensazione del credito di imposta R&S, ragion per cui è lecito dubitare persino della convenienza, per l’impresa, piuttosto che per il gettito erariale, del “nuovo” PB, rispetto a quello abrogato. Inoltre, la “semplificazione” opera in parte con effetto retroattivo, in violazione tra l’altro anche dello “Statuto dei diritti dei contribuenti”, escludendo dal beneficio quelle imprese che confidavano sul regime PB (“autoliquidato”) per il periodo d’imposta 2020, tutt’ora aperto, in relazione al quale invero pende il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi.

È pur vero che, a beneficio dei contribuenti, si amplia il perimetro dell’agevolazione, considerato che si reintroducono i marchi d’impresa fra gli asset agevolabili, ma in genere i costi relativi ai brand molto spesso risultano di modesto ammontare, vieppiù se confrontati con i redditi  che ne derivano. Aggiungasi che la disciplina transitoria ovvero delle opzioni tra “vecchio” e “nuovo” PB”, con modalità irrevocabile e pluriennale, risulta oscura e comunque tale da non consentire all’impresa di effettuare una scelta ponderata sulla convenienza tra i diversi, interconnessi regimi. In conclusione, tali criticità del “PB semplificato” non appaiono in linea con diverse disposizioni di rango costituzionale.

È ben vero che, come noto, il legislatore ha un’ampia discrezionalità anche nel selezionare, adottare e modificare le agevolazioni fiscali, ma pur sempre con il limite della “ragionevolezza”. Tuttavia nella specie detto limite sembra travalicato e neppure salvaguardato in ragione del “sovraordinato” principio del “pareggio di bilancio”. È auspicabile dunque che, con la conversione in legge del medesimo decreto, paradossalmente, si ponga rimedio alla “semplificazione”.

 

Edoardo Belli Contarini

Fantozzi & Associati

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