Il maxi sequestro di 779 milioni di euro dai conti di AirBnb è solo una bolla di sapone o è la lesa maestà delle norme tributarie nazionali?
Il dibattito è aperto anche tra i tributaristi e gli esperti di fisco italiano ed europeo. Prima di tutto proviamo a capire come funzionano le norme che, stando ai rilievi dei giudici della Procura di Milano, il colosso dell’hospitality statunitense avrebbe infanto.
COSA PREVEDE LA NORMA DEL 2017 SULLA CEDOLARE SECCA
Nel 2017 il dl n. 50 del 2017 ha introdotto la cedolare secca al 21% per le locazioni brevi. Non solo, la norma ha stabilito anche, per i soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare o che gestiscono i portali telematici che, come Airbnb, mettono in contatto locatari e locatori, mettendo in contatto gli host esista l’obbligo di segnalare all’amministrazione finanziaria i contratti stipulati e di effettuare una ritenuta all’atto del riversamento delle somme al locatore e di versarla all’erario. Gli intermediari sono stati, così, gravati dall’onere della “sostituzione d’imposta”.
Le cose cambiano, però, se l’intermediario è un soggetto non residente e privo di stabile organizzazione. In questo caso egli deve nominare un rappresentante fiscale in Italia per l’assolvimento dell’obbligo, non in qualità di “sostituti” bensì di “responsabili d’imposta”, un rappresentante fiscale in Italia.
LA GUERRA DI AIRBNB ALLA NORMA SULLA CEDOLARE SECCA
Ecco Airbnb si è sempre opporta a questa norma ritenendo il dl 50/2017 in contrasto con alcune norme e princìpi comunitari (l’articolo 56 del TFEU), tra cui quello di libera prestazione dei servizi. Giuseppe Litturi, su Startmag, spiega approfonditamente l’iter giudiziario che ha seguito Airbnb che ha fatto prima ricorso al Tar contro il dl 50 del 2017, non ottenendo una sentenza favorevole, poi al Consiglio di Stato il quale ha adito la Corte di Giustizia (CGUE) che ha emesso una sentenza nel dicembre 2022 con la quale “i giudici di Lussemburgo hanno dichiarato che la norma nazionale non confligge con l’articolo 56 del TFEU quando chiede di trasmettere informazioni (primo obbligo) e nemmeno quando chiede di eseguire la ritenuta (secondo obbligo)”.
LA NORMA SUL RAPPRESENTANTE FISCALE: “ECCESSIVA E NON PROPORZIONATA”
L’unica questione sulla quale la CGUE ha dato ragione ad Airbnb è il terzo obbligo, quello di nominare un rappresentante fiscale per i soggetti non residenti e non stabiliti. I giudici europei hanno ritenuto eccessivo e non proporzionato. Questo aspetto, però, non fa decadere tutta la norma, come aveva chiesto Airbnb. “Sul punto, il collegio italiano ha liberato il freno costituito dalla necessaria condivisione delle conclusioni della CGEU e si è lasciato andare – scrive ancora Litturi -: “la tesi pur suggestivamente argomentata non convince”, è l’arabesco verbale quasi irridente con cui si respingono le tesi dei ricorrenti. Infatti, il rappresentante fiscale è solo “un’aggiunta”, una modalità indicata per eseguire l’adempimento”.
LA SOVRANITÀ FISCALE ITALIANA VALE ANCHE PER AIRBNB
L’obbligo di ritenuta resta valido anche a carico dell’intermediario non residente e privo di stabile organizzazione. Dunque, la norma non smette di funzionare. E le rimostranze di Airbnb non avrebbero fondamento. “Se lo Stato pone un’obbligazione a carico di Airbnb e quest’ultima decide di interpretare autonomamente la legge e farsi scudo di improbabili norme europee, facendosi beffe di quel poco di sovranità fiscale di cui ancora disponiamo, il danno c’è già. A prescindere da tutto il resto. Anzi, il danno è proprio quello, prima ancora dell’ammanco nelle casse dello Stato – scrive Litturi -. Come si incassano le imposte lo decidiamo ancora noi e voi vi adeguate, hanno risposto i magistrati del Consiglio di Stato”.
IL “PASTICCIO” LEGISLATIVO SECONDO IL PROF. DARIO STEVANATO
Sul punto, come detto, non c’è parere unanime tra gli esperti. Il prof. Dario Stevanato, ordinario di diritto tributario presso l’Università di Trieste, sul Foglio, si interroga su quale sia il reato commesso da Airbnb. “Non si comprende come possa considerarsi “profitto del reato” un ammontare che Airbnb non ha trattenuto per sé ma ha interamente riversato agli host, cioè ai locatori clienti della piattaforma – scrive Stevanato ricordando il sequestro da 779 milioni di euro -. Anzitutto, come detto, non si vede dove stia il reato”. Secondo il prof. Stevanato siamo davanti a un vero e proprio “pasticcio” legislativo.
Le motivazioni, a tratti, sarebbero di carattere ideologico. “Pur di imporre a forza un obbligo di operare ritenute, si è attribuito ai soggetti esteri la qualifica di “responsabili d’imposta” pur a fronte di obblighi che appaiono sostanzialmente di “sostituzione d’imposta” – scrive Stevanato -. E ciò in continuità con le scelte legislative degli ultimi anni, come le varie web o digital tax, che denotano insofferenza verso le grandi multinazionali (soprattutto americane) che, prive di basi fisse in Italia, possono qui operare senza corrispondere, del tutto legittimamente in base alle leggi vigenti, imposte sul reddito”.
Ma non solo, nella sua disamina il prof. Stevanato contesta che Airbnb abbia “trattenuto illegittimamente l’importo delle ritenute” perché i canoni di affitto sono stati interamente riversati ai locatori (al netto della provvigione spettante Airbnb). “Non esiste alcun profitto illecito da recuperare in capo ad Airbnb, che non si è appropriata di alcunché, e l’iniziativa della procura di Milano, avallata dal gip, appare a dir poco avventata”, scrive infine il prof. Stevanato.
EUTEKNE: AIRBNB NON HA PAGATO LA CEDOLARE SECCA MA NON ERA TENUTA A FARLO
La questione è stata esaminata da un documento diffuso dal Centro studi Eutekne. “AirBnB – si legge nel documento – ha omesso di operare in ritenuta sui canoni di locazione corrisposti a soggetti che hanno locato appartamenti per meno di 30 giorni”. Eutekne sottolinea che l’imposta “cedolare secca o Irpef che sia” non sarebbe “dovuta da AirBnB, bensì dai proprietari”. Quindi, se è vero che la piattaforma non ha mai corrisposto la cedolare secca “non è detto che a ciò sia corrisposta pari evasione d’imposta, a meno di non voler presumere che nessuno dei locatori coinvolti abbia pagato le imposte sugli immobili locati con locazione breve”.
Resta vero, però, anche il contrario, cioè una parte dei proprietari non ha versato la tassa né tramite Airbnb e nemmeno in maniera diretta. Dal 2017 al 2021, secondo quanto emerso dagli accertamenti della Guardia di Finanza, sono stati corrisposti ai proprietari delle strutture 3,7 miliardi di euro.
LA BUONA FEDE DI AIRBNB
Non ha dubbi sulla buonafede di Airbnb il prof. Raffaello Lupi, ordinario di diritto tributario presso l’Università di Tor Vergata. Una multinazionale come Airbnb non avrebbe “frodato il fisco” volontariamente ma “ritenendosi non residenti non l’hanno operata proprio. Hanno fatto pure un ricorso in corte di giustizia sbagliatissimo, perché è violato il principio di effettività, non le libertà europee”. Nessuna ipotesi di frode penderebbe sul capo dei manager di Airbnb. “La frode sta solo nell’evasione da occultamento – scrive il prof. Lupi su Twitter -. Casomai Airbnb si è sottratto a un adempimento che, sui non residenti, è illegittimo per carenza di effettività. Mica si può obbligare uno straniero a fare segnalazioni o ritenute solo perché ha il portale”.