Caro direttore,
spesso insegnanti e rettori delle università telematiche sostengono di essere trattati con snobismo e sufficienza dagli omologhi che lavorano nelle statali o nelle private blasonate (e che hanno il minimo comune denominatore di possedere sedi e aule fisiche) ma mi sembra che la dicotomia sia destinata a finire.
E che la linea probabilmente troppo severa e intransigente – forse persino oscurantista dato che il tracciato è segnato – di Giovanna Iannantuoni, rettrice della Bicocca di Milano, nonché presidente della Crui, la Conferenza dei rettori delle università italiane, durissima nei confronti delle università telematiche, sia destinata alla minoranza.
Non sono poche, del resto, le università fisiche che accarezzano l’idea di allestire una struttura telematica per poter raggiungere un numero maggiore di alunni e, contemporaneamente, competere ad armi pari con gli atenei digitali, sempre più arrembanti e presenti soprattutto negli spot pubblicitari, con tanto di promesse di sconti sotto una certa età – ma non erano indirizzate soprattutto a chi già lavora e vuole comunque conseguire una istruzione sebbene non più giovanissimo? – e di riconoscimento automatico dei crediti formativi, non so se ci hai fatto caso.
Il vecchio adagio recita “se non puoi batterli unisciti a loro” e sembra un po’ quanto sta avvenendo in Puglia, precisamente al Politecnico di Bari dove il prossimo 26 settembre si terrà un evento di Aulab e Intesa Sanpaolo su space-economy, spin-off universitari e l’importanza dei dati. Molto interessante, soprattutto l’ultimo panel: “Diventa un Data Analyst di successo con Aulab” presentato da Giancarlo Valente, CTO e Co-Founder di Aulab, e Andrea Ferrari, Project Manager di Intesa Sanpaolo.
Sembra insomma che Aulab faccia scouting tra i ragazzi del PoliBa. E questo mi sembra, per così dire, un po’ strano. E ti spiego perché. Aulab è una startup di coding factory dedicata al mondo della programmazione con sede a Bari. La sua missione è più che giusta: colmare il gap di competenze digitali da un lato e dall’altro per trattenere talenti sul territorio. Peraltro lungimirante, dato che la realtà è nata nel 2014 e di lì a breve soprattutto in pandemia si sarebbe parlato solo di transizione digitale. Forma insomma quei talenti di cui si avverte un gran bisogno, nel pubblico e nel privato.
Dopo un investimento iniziale da parte di SocialFare, attraverso il veicolo di accelerazione dedicato alle startup (i cui azionisti sono Finde S.p.A., Fondazione Compagnia di San Paolo e Fondazione CRC), esattamente due anni fa Aulab confluiva in Multiversity (attraverso l’acquisto del 60%). Parlo della realtà guidata da Fabio Vaccarono (nella foto) che, avendo al proprio interno già Unipegaso, Unimercatorum, Istituto San Raffaele e l’entità di certificazione Certipass (e molte altre), è senz’altro attrice di primissimo piano in Italia nel mercato dell’e-learning. L’operazione ha visto ovviamente Multiversity entrare in massa nel cda di Aulab.
E questo è l’aspetto curioso dato che, ragionando per sillogismi, se Aulab fa scouting tra i ragazzi del PoliBa è come se Multiversity stesse facendo scouting tra i suoi avversari. E gli avversari gli aprono persino le porte.
Prevengo ogni tua obiezione: sono consapevole che non ti piacciono i termini usati (avversari) in quanto troppo forti e fuori luogo. So pure che le università statali godono di una posizione privilegiata che permette loro di non fare tutti quei ragionamenti da “imprenditori” ed è nobile anzi che questa alleanza possa portare ad avere più talenti digitalizzati proprio dove servono maggiormente, però sulla carta abbiamo comunque una bizzarra commistione che, ridotta ai minimi termini, farà confluire iscritti ergo fondi nelle casse di un ente privato. E questo mi fa specie.
Sono anche consapevole che secondo l’organigramma societario presente sul sito di Multiversity, ormai più ramificato di un albero genealogico di qualsiasi dinastia regnante europea, Aulab rientri tra le attività formative “non universitarie”, in quanto non inquadrabile come un ateneo vero e proprio. È insomma un corso d’altro tipo, da fare anche dopo l’università. Tuttavia, hai capito che intendo quando dico che i soldi arrivano comunque a Multiversity.
Chiudo dunque con un dilemma, caro direttore: le università tradizionali, per sopravvivere, stanno tessendo alleanze con quelle digitali o gli atenei virtuali, per fare incetta di pubblico, hanno compreso che devono sfruttare i luoghi fisici delle facoltà che presidiano i territori?
Ah, saperlo.
Tuo,
Claudio Trezzano