Un Donald Trump insolitamente buono. Così almeno è apparso (o ha cercato di apparire) nel corso del tradizionale discorso sullo Stato dell’Unione pronunciato davanti al Congresso martedì notte (ora italiana). Il presidente statunitense, nel corso degli 82 minuti di speech, ha adottato toni decisamente più concilianti rispetto alla sua retorica che è, di solito, più aggressiva e meno incline ai toni più tenui del politically correct. Un discorso dunque apparentemente bipartisan, che prende atto dell’attuale situazione politica interna ma che lascia tuttavia irrisolti alcuni nodi.
Innanzitutto, le divisioni interne con i Democratici sono destinate a rimanere. Trump si è dimostrato abile nel fare un richiamo all’unità, dal momento che dopo le elezioni di mid-term i Repubblicani hanno perso la maggioranza alla Camera e Nancy Pelosi la dura in guanti di velluto è stata nominata Speaker.
Per evitare di ridursi a essere un’anatra zoppa già nel terzo anno di mandato, l’inquilino della Casa Bianca non può dunque mantenere lo stesso atteggiamento di rottura che ha caratterizzato i primi due anni di presidenza. Allo stesso tempo, tuttavia, Trump non ha rinunciato a riproporre i punti fermi della sua retorica: su tutti, la conferma dell’impegno a costruire il muro con il Messico, in nome di un’immigrazione che deve essere controllata, ma nei cui confronti non si è dimostrato ostile (elemento di apertura abbastanza importante).
Un elemento fondamentale è poi l’economia: in questo ambito Trump ha come al solito esagerato nel presentare i successi raggiunti durante la sua amministrazione. Il presidente ha sostenuto che nel 2019 i salari hanno visto l’aumento più alto «degli ultimi decenni»: l’incremento è stato in effetti elevato (pari al 3,2% in termini nominali), ma è stato il più cospicuo dal 2009.
Lo stesso si può dire della bassa disoccupazione: Trump ha sostenuto di aver creato 5,3 milioni di posti di lavoro, quando in realtà negli ultimi due anni ne sono stati aggiunti 4,9. Risultati comunque di tutto rispetto e che, va detto, risentono degli anni positivi vissuti durante l’amministrazione Obama. È infatti probabile che quest’anno i nodi vengano al pettine: lo shock fiscale voluto dal capo della Casa Bianca nel 2017 ha aumentato in maniera preoccupante il deficit federale e questo, in parallelo con la riduzione delle stime di crescita previste a livello globale, potrebbe causare qualche grattacapo a ridosso della campagna elettorale del 2020.
Infine, la politica estera: il presidente ha annunciato un nuovo incontro con Kim Jong-un che si dovrebbe svolgere alla fine di febbraio. È innegabile che il primo disgelo voluto da Trump tra Washington e Pyongyang abbia contribuito quantomeno a ridurre la tensione e a sgombrare il campo, per ora, dal rischio di nuove ostilità militari. Siamo però ancora lontani dal vedere un reale cambiamento di rotta da parte della Corea del Nord.
Un’altra questione menzionata nel discorso è stata la crisi in Venezuela: gli Usa si sono schierati da subito con Juan Guaidó e il presidente ha ribadito che «tutte le opzioni sono sul tavolo». Un intervento militare diretto non sembra così probabile, quanto piuttosto un sostegno in termini finanziari e logistici all’opposizione. Al di là delle polemiche, in questo caso l’approccio del presidente è abbastanza coerente con la tradizione della dottrina Monroe che è stata riproposta fino ai giorni nostri. Insomma, un Trump di rottura, ma non troppo, forse più consapevole dei suoi limiti e della necessità di essere rieletto l’anno prossimo.
Articolo pubblicato su MF/Milano Finanza