Martedì il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato alcuni ordini esecutivi per stimolare la produzione di carbone. “Stiamo riportando in vita un’industria che è stata abbandonata”, ha detto: “Rimetteremo i minatori al lavoro”.
Negli ultimi dieci anni il numero degli occupati nel settore carbonifero statunitense è sceso da 70.000 a 40.000. Oggi questa fonte – più inquinante degli altri combustibili fossili perché rilascia più CO2, oltre a diversi inquinanti nocivi per la salute – vale il 15 per cento della generazione elettrica nel paese, rispetto al 50 per cento nel 2000. Dal 2000, poi, hanno chiuso circa 770 impianti a carbone, messi fuori mercato dal gas naturale – gli Stati Uniti ne sono i primi produttori al mondo – e successivamente dall’eolico e dal solare.
“Tutti gli impianti che sono stati chiusi verranno aperti se sono abbastanza moderni, oppure verranno demoliti e ne verranno costruiti di nuovi”, ha dichiarato Trump.
TUTTE LE MOSSE DI TRUMP PER STIMOLARE IL CARBONE
Gli ordini esecutivi puntano a evitare la chiusura di altre centrali a carbone, a incentivare la costruzione di nuove e ad aumentare la produzione del combustibile.
Ad esempio, il governo identificherà le leggi statali che potrebbero ostacolare questa fonte per ragioni climatiche. Il dipartimento dell’Energia – guidato da Chris Wright, un imprenditore del settore petrolifero -, inoltre, valuterà se classificare il carbone metallurgico, utilizzato nella produzione dell’acciaio, tra i “minerali critici”: in questo modo, le autorità federali potranno fare ricorso ai poteri emergenziali per aumentarne la produzione.
L’ufficio dei prestiti del dipartimento dell’Energia, poi, metterà a disposizione finanziamenti per 200 miliardi di dollari per le tecnologie legate al carbone: non solo la cattura del carbonio, come in passato, ma anche processi per l’utilizzo dei sottoprodotti dell’estrazione (come la grafite per le batterie, o i materiali per l’edilizia). Mentre il dipartimento degli Interni di Doug Burgum – che occupa anche la presidenza del Consiglio nazionale dell’energia – avrà il compito di incoraggiare l’acquisto di diritti per l’estrazione di carbone sui terreni federali, eliminando la moratoria.
CHE IMPATTO CONCRETO AVRANNO GLI ORDINI ESECUTIVI?
La firma degli ordini esecutivi ha fatto crescere di circa il 9 per cento le azioni di un paio di società carbonifere statunitensi, ovvero Peabody e Core Natural Resources. Non è scontato, però, che il desiderio di Trump di un aumento dell’output si traduca in realtà, considerato che il carbone è stato soppiantato da altre fonti non solo per ragioni climatiche ma economiche. Il calo degli occupati nel comparto minerario, inoltre, è legato anche all’automazione.
Trump aveva già cercato di stimolare l’industria del carbone durante il suo primo mandato da presidente, chiedendo all’allora dipartimento dell’Energia di sussidiare le centrali alimentate con questo combustibile, ma il piano venne respinto dalle autorità di regolazione nel 2018. Attualmente le centrali a carbone – che generano energia in maniera stabile e continuativa, come quelle a gas, ma emettendo di più – forniscono elettricità alla rete solo il 40 per cento del tempo. La Casa Bianca pensa di poter alzare questa quota attraverso la deregulation e altre misure.
GLI STATI UNITI HANNO BISOGNO DI ELETTRICITÀ
Trump ha motivato gli ordini esecutivi sul carbone con la necessità di garantire al paese l’energia necessaria a vincere la competizione internazionale sull’intelligenza artificiale: i centri dati che forniscono capacità di calcolo a questa tecnologia hanno bisogno di forniture abbondanti e continuative di elettricità e sono una delle cause dell’aumento – dopo vent’anni – della domanda elettrica negli Stati Uniti.
“Abbiamo bisogno di più che raddoppiare l’energia, l’elettricità, che abbiamo”, ha detto Trump.
Il segretario degli Interni Burgum aveva detto di credere che gli Stati Uniti perderanno la “corsa alle armi sull’intelligenza artificiale” se non aumenteranno la generazione di elettricità da fonti fossili: “senza un carico di base, perderemo la corsa alle armi sull’intelligenza artificiale con la Cina, e se la perderemo ciò avrà un impatto diretto sulla nostra sicurezza nazionale”. Con il termine “carico di base” (o baseload), Burgum fa riferimento a quegli impianti che forniscono elettricità in maniera stabile e continuativa alla rete, garantendo il bilanciamento di domanda e offerta: come le centrali a carbone, appunto, ma anche quelle a gas o quelle nucleari.
LE BIG TECH ACCETTERANNO IL CARBONE?
Non è scontato però che le società tecnologiche, che devono rendere conto della loro impronta emissiva e che hanno investito in fonti pulite (come le rinnovabili e il nucleare), decidano di acquistare elettricità prodotta con il carbone per i loro data center.
Nei mesi scorsi tutte le Big Tech statunitensi – a cominciare da Microsoft per arrivare a Meta, passando per Alphabet e Amazon – hanno annunciato degli accordi di compravendita energetica con gli operatori di centrali nucleari, hanno presentato una richiesta per la costruzione di nuovi reattori oppure hanno investito in società specializzate nelle nuove tecnologie modulari.
È probabile però che sarà il gas, e non il nucleare, il vero vincitore del boom di domanda elettrica creato dall’intelligenza artificiale, almeno all’inizio: ne sono convinti ad esempio Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, e Mike Wirth, capo della società petrolifera americana Chevron.
Al di là della generazione elettrica, comunque, l’amministrazione Trump considera il carbone essenziale per la ripresa dell’industria siderurgica americana.