Caro direttore,
all’inizio del Novecento l’avanguardia futurista italiana esaltava il varietà perché eccentrico, antintellettuale e popolare, capace di stupire, divertire, emozionare, abbindolare gli spettatori con la rapidità e il sensazionalismo del suo messaggio. “Il teatro della sorpresa”, come titolava il manifesto firmato da Filippo Tommaso Marinetti e Francesco Cangiullo nel 1921, doveva perciò gettare alle ortiche ogni scoria élitaria e diventare “alogico”. Artificio, comicità, imprevedibilità, testi scarni e insignificanti personaggi erano i canoni e i valori della drammaturgia futurista. Quarant’anni dopo, Martin Esslin pubblicava “The Theatre of the Absurd”, dove campeggiano i nomi di Samuel Beckett, Eugène Ionesco, Jean Genet, capostipiti di un genere letterario celebre per il suo humor grottesco, le sue atmosfere surreali, il suo linguaggio ripetitivo, frammentato, privo di senso.
Nella diciottesima legislatura, una delle più scombiccherate della storia repubblicana, si sono alternate senza sosta ambedue le forme di spettacolo. La diciannovesima rischia di ricalcarne le disavventure, complice una legge elettorale scriteriata, che ha incentivato la ricerca di alleanze spurie sostenute da programmi contradditori. Questa legge elettorale è il pilastro di un modello bipartitico zoppo, che si basa su un cervellotico meccanismo delle coalizioni pre-elettorali tenute insieme dall’unico obiettivo di impedire la vittoria dell’avversario. Ecco allora il colpo di scena: il “campo largo” non c’è più. Il senatore del Pd Dario Franceschini ha proposto di accantonare ogni ipotesi di alleanza organica del centrosinistra: andiamo alle prossime elezioni ciascuno per proprio conto, e concordiamo patti di desistenza soltanto nel terzo dei seggi che si assegnano con i collegi uninominali. Nel nuovo Parlamento ci rimetteremo insieme. Insomma: “Marciare divisi, colpire uniti”, come recita la massima del feldmaresciallo Helmuth von Moltke.
L’idea è stata accolta con benevolenza da Giuseppe Conte, con freddezza dalla segretaria del Pd, che forse ha sentito puzza di bruciato, e con interesse da Goffredo Bettini. Ne è seguito un dibattito piuttosto confuso che, se si pensa anche alle inquietudini dei cattolici dem, denota qualche fibrillazione intorno alla leadership del partito. Sic transit gloria mundi. La verità è che la giravolta dell’ex ministro della Cultura e dell’ex teorico del campo largo è clamorosa. Ma ancora più clamorosa è l’ignoranza della legge elettorale vigente mostrata dai protagonisti di quel dibattito. Infatti, il Rosatellum non consente desistenze né voti disgiunti (come invece accadeva con il Mattarellum): per avere un candidato comune all’uninominale è necessario andare insieme anche al proporzionale. Bisogna, cioè, fare una coalizione. Per forza. Esattamente come fa il centrodestra. Si possono costruire formule politiche improbabili per ingannare gli elettori, ma non è possibile ingannare la legge elettorale. Neppure con “il lodo Franceschini”.
In altre parole, o mangi questa minestra o salti dalla finestra. Salvo chiedere al cuoco di cambiarla con un sistema proporzionale (con soglia di sbarramento almeno pari a quella prevista per le elezioni europee). Ma i commensali seduti al tavolo dell’opposizione, almeno fin qui, non hanno avuto il coraggio di avanzare l’unica proposta sensata per uscire da una impasse strategica, che però getterebbe definitivamente alle ortiche la mitologia del campo largo. Morale della favola: quella del prestigiatore elettorale è un nobile mestiere, ma occorre conoscere bene i trucchi per ricevere l’applauso degli spettatori.