I due giorni di assenza natalizia dei giornali dalle edicole, sempre più ridotte di numero ma anche sempre meno disponibili ai calendari e ai sacrifici di una volta, quando i quotidiani raggiungevano i loro lettori puntuali quasi come l’alba o il tramonto, hanno fortunatamente interrotto la curiosa corrida attribuita a Matteo Salvini. Rappresentato come smanioso di tornare al Viminale dopo la sua assoluzione con formula piena in primo grado -spero senza ricorso- dall’accusa di avere addirittura sequestrato come ministro dell’Interno più di cinque anni fa 147 migranti clandestini, facendoli trattenere a bordo della nave spagnola che li aveva soccorsi in mare per scaricarli solo sulle coste italiane.
Questa smania di Salvini, con tutte le reazioni negative attribuite alla premier Giorgia Meloni persino con parole virgolettata nelle solite cronache più meno retrosceniste, e insinuazioni anche sul Quirinale ancora più contrario di Palazzo Chigi, è stata più una montatura che una notizia. Più palle appese all’albero di Natale che una rappresentazione di fatti reali.
Non di sua iniziativa, ma sempre in risposta a qualche giornalista più malintenzionato che curioso, Salvini aveva solo detto dopo l’assoluzione a Palermo che il Ministero dell’Interno gli “era rimasto nel cuore”. E aggiunto che “se un domani la sorte mi riportasse al Viminale”, dove fa il ministro quello che gli era stato il Capo di Gabinetto, tuttora in eccellenti rapporti con lui, “sarei una persona felice, ma sono contento di quel sta facendo Piantedosi”. Peraltro Matteo come lui. Col quale ha firmato festosamente, tra fotografi e telecamere da spreco, una convenzione per la sicurezza delle stazioni e simili.
Nel proporre e condurre una polemica o un caso di panna montata -come una volta Eugenio Scalfari defini “l’avvocato” Gianni Agnelli che aveva osato dissentire da un suo consiglio- sono stati scomodati anche gli archivi dei giornali, compreso quello del Corriere della Sera. Sulle cui pagine ho visto ristampata, quasi come la prova diabolica della rivalsa perseguita dall’interessato, la foto del giuramento di Matteo Salvini al Quirinale, il 1° giugno del 2018, da vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, appunto, del primo governo di Giuseppe Conte. Uno scoop differito, chiamiamolo così, per non dire di peggio, come meriterebbe questa pratica, più che professione, giornalistica.
Lasciatemi esprimere l’auspicio che dopodomani i giornali, privilegiando le immagini e contorni della Porta Santa aperta dal Papa, non torneranno nelle edicole continuando a raccontarci questa frottola del Viminale rivendicato da Salvini e negatogli da una Meloni infastidita. Che gli ha concesso già troppo assecondandone il progetto, perseguito come ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, del ponte sullo stretto di Messina. Un ponte che gli avversari vorrebbero crollasse già in costruzione, magari solo per limitarne i danni. Purtroppo l’opposizione, al singolare, è anche questo.