Ora che è ormai ufficiale la riapertura del termine per aderire al concordato preventivo biennale entro il prossimo 12 dicembre, qualche riflessione si impone sui risultati di un’operazione finalizzata a recuperare gettito da una fascia di contribuenti di difficile gestione.
In termini di efficienza, bisogna riflettere su quante squadre di finanzieri e verificatori dell’Agenzia delle Entrate ci sarebbero volute per recuperare da una platea sterminata di 160mila contribuenti circa 1,3 miliardi di imposte relative a 8,5 miliardi di maggiori redditi? Probabilmente non sarebbero bastati i circa 30mila dipendenti dell’AdE e l’intero corpo delle 64mila Fiamme Gialle, impegnati per chissà quanti giorni, dopo i quali sarebbero state ingolfate di ricorsi tutte le Commissioni Tributarie del Paese, con inevitabili strascichi fino in Cassazione. Il tutto protratto per anni.
Invece al viceministro Maurizio Leo e alla struttura dell’AdE è bastato che la sera dello scorso 31 ottobre arrivassero telematicamente le dichiarazioni dei redditi del 2023 di circa 500mila contribuenti, accompagnate dall’accettazione della proposta di (maggiore) reddito formulata dal Fisco per i redditi 2024 e 2025. Si tratta dell’effetto della prima applicazione del concordato preventivo biennale (Cpb). È così che si sono materializzati redditi aggiuntivi ai fini delle imposte dirette pari a 8,5 miliardi, oltre a 6,3 miliardi ai fini Irap e, di conseguenza, maggiori imposte per 1,3 miliardi che cominceranno ad affluire nelle casse del Mef già dal prossimo acconto di fine novembre, per poi manifestarsi in pieno nel 2025 tra acconti e saldi.
Ma non è finita qui. Infatti dalla riapertura dei termini seppure limitata solo a coloro che hanno presentato la dichiarazione nel termine del 31 ottobre, è ragionevole attendersi un altro significativo flusso di entrate.
Pur avendo bisogno di maggiori dettagli per comprendere meglio i comportamenti dei contribuenti e il maggior gettito che sarà definitivamente accertato, è comunque possibile fare alcune considerazioni sul risultato fin qui conseguito dal nuovo strumento voluto da Leo.
È stato un successo, come rivendica il governo, o un fallimento, come denuncia l’opposizione? Diciamo subito che i numeri parlano da soli e testimoniano l’eccezionale efficienza dell’operazione. L’amministrazione finanziaria ci avrebbe messo anni e qualche milione di giornate/uomo per rovistare nei conti di 160mila contribuenti e incassare (dopo un costoso contenzioso) 1,3 miliardi.
Ma l’efficienza non basta e bisogna ragionare anche di rispetto dell’equità. E aver fatto emergere redditi di dubbia ma non certa provenienza, con uno strumento grezzo che non rappresenta certo una presunzione di redditi effettivi, concorre anche all’equità. Brandire l’equivalente di una picozza non è un argomento granché convincente in termini di equità e chi ha aderito ha rinunciato a delle (presunte) ragioni.
In Italia, secondo le dichiarazioni del 2022, c’erano 2,7 milioni di contribuenti soggetti ai famosi ISA (indicatori sintetici di affidabilità) che variano da 1 a 10 (da minore a maggiore affidabilità). Si tratta di persone fisiche imprenditori, società di persone, società di capitali e lavoratori autonomi con fatturato non superiore a 5,1 milioni. Per completare il «popolo delle partite IVA», ci sono poi circa 1,8 milione di “forfettari” con ricavi inferiori a € 85mila.
Va fatta l’essenziale e decisiva premessa che gli ISA non attestano una condizione di evasione ma sono semplicemente un indice di “allarme” circa l’attendibilità del reddito dichiarato, insomma uno strumento grezzo per analizzare e selezionare la platea dei contribuenti, non certo una presunzione di reddito per legge. L’evasione va provata con gli strumenti previsti dall’ordinamento. I 2,7 milioni si dividono in 1,5 milioni di soggetti potenzialmente meno attendibili (ISA minore di 8) e 1,2 milioni più attendibili (ISA maggiore di 8).
La proposta del Fisco ha ovviamente richiesto un reddito molto più alto rispetto al dichiarato ai soggetti con ISA basso, mentre ai soggetti con ISA 10 ha sostanzialmente confermato l’ultimo reddito dichiarato. Chi ha aderito verserà sul maggior reddito proposto rispetto al dichiarato un’imposta sostitutiva. Più è basso l’ISA di partenza, più è alta l’aliquota (al massimo 15%). Si è così creato uno “scivolo” per consentire al contribuente di superare lo scoglio dell’emersione di maggiori redditi.
Ognuno si è fatto i suoi calcoli e, dei 500mila contribuenti che hanno aderito al CPB, 100mila sono “forfettari”, che tralasciamo per semplicità, 243mila (il 20%) appartengono ai 1,2 milioni più affidabili e 160mila (l’11%) appartengono ai 1,5 milioni meno affidabili.
Poiché i 243mila contribuenti con ISA alto si sono visti proporre – proprio per la loro presunta affidabilità – redditi molto vicini a quelli dichiarati, tutto il maggior reddito imponibile e gettito è attribuibile ai 160mila soggetti che per arrivare a un ISA tra 8 e 10, hanno dovuto impegnarsi a versare 1,3 miliardi di maggiori imposte (sostitutive). Una cifra enorme, se si considera che i 160mila appartengono a 1,3 milioni di contribuenti (con ricavi superiori a 30mila euro) il cui reddito medio nel 2022 è stato 24.900 euro. Quei redditi ora vengono all’incirca raddoppiati per il 2024 e 2025 (8,5 miliardi : 160mila : 2 anni).
Lo Stato avrebbe potuto incassare di più e quindi ha fatto un regalo ai contribuenti? Ipotizzare uno scenario controfattuale non è facile. Tuttavia è ragionevole ipotizzare che lo Stato non ha regalato nulla e potrebbe aver perso qualcosa rispetto ai 243mila soggetti “fedeli” i quali se hanno aderito lo hanno fatto in previsione di redditi stabili o in aumento nel 2024-2025, ma comunque prendendo anche il rischio di un calo di ricavi. Hanno preferito la tranquillità rispetto a controlli che avrebbero fatto perdere solo tanto tempo. Infatti il 20% degli “affidabili” che ha aderito, è percentuale troppo alta per presumere che siano solo quelli che prevedono di aumentare il reddito nel prossimo biennio e guadagnarci, pagando le imposte (ad aliquota piena, non sostitutiva, come erroneamente sostenuto in alcuni articoli) solo sul reddito concordato che resta fisso.
I 160mila presunti “reprobi”, nel caso fossero davvero evasori, hanno colto l’occasione per far emergere redditi che mai sarebbero emersi, stante la bassissima probabilità che il Fisco riesca a raggiungerli e, soprattutto, a dimostrare le proprie pretese. In ogni caso, hanno preferito “comprare tranquillità” a fronte di aliquote non proibitive. Considerato che hanno aderito sulla spinta di uno strumento grezzo che non rappresenta per nulla i redditi effettivi, il semplice fatto che abbiano deciso di pagare 1,3 miliardi è un passo avanti per migliorare l’equità orizzontale tra contribuenti perché, in uno scenario controfattuale, l’incasso per lo Stato sarebbe stato probabilmente molto vicino a zero.