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Cosa danza nella mente di Luciano Benetton?

Storia, parole e immagine di Luciano Benetton tra fatti, ricordi e riflessioni.

“La voce di Luciano Benetton è ferma. Ha sempre avuto uno sguardo positivo (…). Ma in queste settimane nelle sue parole prevale di nuovo l’amarezza, quella di un uomo classe 1935. Amarezza profonda”. Con queste parole inizia l’interminabile intervista a Luciano Benetton pubblicata qualche giorno fa sul Corriere della Sera e contemporaneamente si conclude la parabola di uno dei più efficaci comunicatori dell’Italia del secondo Novecento, “eroe eponimo” di un’azienda familiare veneta del tessile – abbigliamento che non solo ha stampato a colori indelebili la sua impronta nel costume italiano ma che in pochi decenni si è trasformata in un gruppo finanziario di statura internazionale. Eroe eponimo perché le sue scelte nella comunicazione hanno dato celebrità al cognome che condivide con i due fratelli e con la sorella.

Il successo si paga. Le parole più sopra riportate rendono il tono di un testo, verosimilmente composto e rimasticato con pensosi e pignoli contributi di consulenti legali ed altri esperti, che si è riversato nell’intervista al Corriere.  Niente da dire: nei miei lontani anni di giornalista mi era capitato di trovare, nell’ufficio dello speculatore immobiliare che aveva accettato di ricevermi per una “chiacchierata”, un importante avvocato del foro milanese che aveva assistito in silenzio al colloquio. Ma Luciano Benetton non è, non è mai stato un “immobiliarista” con le virgolette. Magari anche qualcosa di molto peggio, o di molto meglio, comunque sia qualcosa di molto diverso.

Mi intrattenni con lui per un paio d’ore quasi cinquant’anni fa, sempre negli anni lontani di cui sopra, per un’intervista a Ponzano Veneto, nella villa che ospitava la sede centrale dell’azienda, e quel che mi è rimasto è il ricordo del successivo casuale incontro sul treno che portava entrambi a Venezia per motivi diversi: me per rientrare a Milano, Benetton per assistere a un concerto da qualche parte in Laguna. Un po’ poco per giudicare una persona.

Qui si parla quasi solo di immagine pubblica, di come una persona ha deciso di porsi, e sicuramente nella sua vita pubblica Luciano non si è mai voluto porre come la persona benintenzionata, l’imprenditore altruista che faceva installare l’aria condizionata negli stabilimenti ed era orgoglioso di avere “creato” tanti posti di lavoro “buono”. E nemmeno come lo spregiudicato speculatore immobiliare improvvisatosi assicuratore che parla solo in presenza del suo avvocato. La comunicazione di Benetton provocava, disorientava. Il buonismo piccolo borghese non è mai stato la sua chiave comunicativa, né quella della pubblicità di United Colors of Benetton. Benetton era ed è intelligente, non avrebbe mai detto “il sopportare la tragedia del Ponte Morandi”. Della sua immagine pubblica, nell’intervista al Corriere c’è solo il nome e il cognome.

Il successo si paga. I quattro fratelli Benetton hanno vissuto una storia di successo straordinaria e mentre questa storia si snodava la dimensione del loro gruppo imprenditoriale si ingigantiva. Già da vent’anni abbondanti è iniziata anche a Ponzano Veneto la “rivoluzione manageriale”, quella che secondo James Burnham avrebbe dovuto seppellire il capitalismo. Il capitalismo è ancora vivo e vegeto ma in compenso i grandi gruppi “privati” hanno sempre meno cose che li distinguano dagli apparati statali. A questi ultimi li accomuna soprattutto la natura burocratica di grandi organizzazioni. La trama e l’ordito di queste organizzazioni sono le procedure: si manifesta una crisi (nel nostro caso la voragine di perdite di “Benetton Group”, quel che resta dell’attività originaria), si costituisce un “comitato di crisi”, si coinvolgono i “competenti”, si sceglie una “strategia”, si distribuiscono i compiti.  Il prezzo del successo non è altro, nei casi normali, che la rinuncia a tutte le azioni e allo stile attraverso i quali il successo è stato costruito. É con simili modalità, immagino, che nello “stato maggiore” del gruppo sarà stata concepita e attuata l’intervista al Corriere, e il cuore della strategia sarà stato che il “signor Luciano” doveva metterci la faccia.

Si tratta di pura fantasia di cui mi prendo l’esclusiva paternità. Potrebbe darsi che l’intervista di Luciano Benetton sia stata il frutto di un impulso spontaneo tradotto in un invito al giornalista del Corriere che si è limitato a registrare le parole dell’intervistato. Mi auguro però che sia vera la versione che mi sono immaginato. Se così non fosse, se cioè le parole attribuite all’intervistato fossero davvero farina del suo sacco, vorrebbe dire che il prezzo che il successo ha preteso da Luciano Benetton non è solo pesante, è crudele. Già “metterci la faccia” con l’intervista è stato un prezzo non indifferente.

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