Un estratto sui rapporti tra media cinesi e italiani tratto dal libro “Ombre cinesi sull’Italia – Le mire espansionistiche di Pechino” scritto da Marco Lupis ed edito da Rubettino:
[…] i media cinesi hanno stipulato vari accordi di collaborazione con media italiani, come la RAI e l’ANSA, che prevedono lo scambio di contenuti, la coproduzione di programmi e la formazione di giornalisti. Questi accordi sono stati firmati per la prima volta nel marzo 2019, in occasione della visita di Stato del Presidente cinese Xi Jinping in Italia. Su questo tema, risulta davvero illuminante uno studio a firma di Francesca Ghiretti e Lorenzo Mariani, «One Belt One Voice: i media cinesi in Italia», pubblicato sulla rivista dell’Istituto Affari Internazionali:
Nel tentativo di aggiornare la propria strategia di diplomazia pubblica, il governo cinese ha intrapreso una grande varietà di azioni e usato tattiche differenti. Una parte di queste iniziative può essere considerata legittima: forme di soft power ampiamente utilizzate da altri paesi nel promuovere all’estero le proprie attività economiche e politiche o il proprio retaggio culturale. Le azioni della Cina nel panorama mediatico globale sono invece più controverse. Osservatori indipendenti come Reporter senza frontiere e la Federazione internazionale dei giornalisti hanno criticato la campagna globale di Pechino per un “nuovo ordine dei media” consistente nel diffondere la propaganda del PCC, nel disseminare contenuti ingannevoli e false accuse contro i suoi oppositori, come pure nell’esportare il modello mediatico cinese, tecniche di censura incluse.
Gli organi d’informazione cinesi di Stato (e va detto che in Cina lo sono tutti, perché non esiste una stampa libera non controllata e censurata dal Partito) hanno usato soprattutto accordi di condivisione dei contenuti per entrare nell’ambiente mediatico italiano. Molti grandi gruppi mediatici italiani, infatti, hanno da tempo rapporti di partenariato con controparti cinesi.
Bisogna prima di tutto chiarire che i media cinesi sono tutti interconnessi, perché tutti dipendono in modi diversi da un solo referente, cioè il PCC, come si è detto, e spesso condividono gli stessi contenuti. Per esempio, i contenuti video che i media italiani ricondividono sono quasi sempre quelli forniti da CGTN, indipendentemente dal partner cinese con cui hanno fatto un accordo.
Si tratta di accordi privati (non a caso) coperti da clausole di riservatezza, il che rende apparentemente complicato analizzarne i contenuti e, soprattutto, confrontare gli accordi tra di loro, ma utilizzando documenti in open access, interviste e comunicati stampa si può ricostruire la dimensione di questi partenariati e, quindi, capire meglio il livello di penetrazione che i media statali cinesi hanno finora ottenuto in Italia. Ma vediamoli nel dettaglio, almeno i più rilevanti.
L’Agenzia Giornalistica Italia (AGI) è una delle maggiori agenzie di stampa italiane. Appartiene alla multinazionale ENI ed è stata una sorta di «apripista» per quanto riguarda i rapporti di partenariato con i gruppi cinesi dell’informazione. Nel 2008, con Xinhua e China Radio International, ha creato Agi China 24, un sito web con solo notizie sulla Cina, rimasto in attività però solo pochi anni. Nel 2014 l’agenzia ha firmato un memorandum d’intesa con Xinhua Europe che includeva la condivisione di contenuti. Il partenariato è stato poi rinnovato nel 2019 prima della visita di Xi in Italia. Un’altra importante agenzia di stampa italiana, Adnkronos, ha firmato nel 2017 un accordo di condivisione di contenuti con Xinhua e come conseguenza pubblica notizie date da Xinhua in inglese, senza considerare che l’agenzia di stampa cinese è in pratica sotto il controllo diretto del PCC. Il caso di Adnkronos mostra bene uno dei principali rischi degli accordi di condivisione di contenuti. Altri media, come il quotidiano «Libero», usano agenzie di stampa per avere le notizie, ma senza informazioni proprie o giornalisti specializzati in loco, questi e altri media finiscono per ripetere senza critica notizie che vengono dalle agenzie di stampa cinesi, aiutando così a diffondere contenuti di propaganda in Italia.
Il 20 marzo 2019 «Il Sole 24 Ore» – il quotidiano economico-finanziario italiano più importante e autorevole, che appartiene a Confindustria – ha sottoscritto un memorandum d’intesa con l’«Economic Daily» cinese. Il giorno dopo «Il Sole 24 Ore» ha pubblicato diciassette articoli in una parte del suo sito web chiamata «Focus China», che presenta contenuti molto a favore della Cina. Per correttezza va detto che tutti gli articoli erano contrassegnati come «informazione promozionale»: alcuni non riportavano il nome degli autori, altri sembravano una traduzione pedissequa di articoli già apparsi sull’«Economic Daily». Un articolo tra i più discutibili conteneva citazioni del Presidente Xi Jinping sull’Iniziativa Belt and Road. Nel 2021 «Il Sole 24 Ore» è stato uno dei quasi 200 media internazionali criticati per avere messo pubblicità, dette «mediadrops», pagate dal giornale ufficiale del PCC, il «Quotidiano del popolo». La pubblicità – come annuncio a tutta pagina – aveva due articoli con i titoli «Fiducia nella soluzione cinese per la ripresa economica nel mondo» e «Nuovo record degli interscambi commerciali tra Cina e Italia».
I problemi di etica giornalistica che coinvolgono il quotidiano economico non sembrano per nulla essersi risolti col tempo, almeno a giudicare dalla vera e propria rivolta dei suoi giornalisti che, il 28 marzo 2023, dopo la pubblicazione di uno speciale di 4 pagine intitolato «Focus China» sull’edizione domenicale, producevano un comunicato a firma del loro Comitato di redazione dal contenuto a dir poco auto-esplicativo. Secondo i giornalisti del 24 Ore, infatti, si è trattato di un «modello assai ambiguo di redazionale», che non rende evidente al lettore che si tratta di pubblicità. In più secondo il CdR del Sole il committente non è chiaramente indicato. E si tratta di «pura propaganda» per attrarre investimenti dall’Italia verso la Cina, giudicata «inqualificabile, visto che mette le pagine del giornale a disposizione di un sistema economico e di uno Stato («la permeabilità, se non l’identità, tra l’uno e l’altro è assoluta», notano correttamente i colleghi del quotidiano economico) che si caratterizzano piuttosto per l’assenza degli elementi base di una democrazia.
«In altre parole» insiste il CdR, «“Il Sole 24 Ore” si è prestato a battere la grancassa per una dittatura, che oltre alla tradizionale assenza di pluralismo politico, di libertà di opinione e di espressione, di rispetto per le minoranze, è oltretutto oggi sempre più arroccata in politica estera su un sostegno filo-putiniano». Infine, il CdR si chiede quali siano «gli interessi morali sottesi alla (ennesima) pubblicazione delle quattro pagine del Focus China. Quelli materiali temiamo di intuirli. Purtroppo» chiudono efficacemente i giornalisti.
Ma gli accordi più importanti (e inquietanti) sono quelli che sanciscono la collaborazione con i Media (e quindi con lo Stato cinese) di due dei maggiori Media di Stato italiani: la Rai e l’agenzia di Stampa ANSA.
Il 20 marzo 2019, un giorno prima della storica visita di Xi Jinping in Italia, si è svolto a Roma il «Dialogo tra media cinesi e italiani». L’evento, seguito da quasi duecento partecipanti degli organi di informazione cinesi e italiani è stato organizzato da China Media Group (CMG) in collaborazione con l’«Economic Daily», per la parte cinese, mentre per l’Italia c’erano Class Editori e «Il Sole 24 Ore». Sul ruolo del Gruppo Editoriale Class Editori nell’ambito dei rapporti informativi, ma anche imprenditoriali tra Italia e Cina torneremo in modo esaustivo più avanti, nel capitolo dedicato all’imprenditoria italiana e al «socio cinese». Quel giorno, RAI e ANSA hanno firmato due interessanti accordi con China Media Group e Xinhua. E il motivo evidente per cui solo l’ANSA e la RAI hanno firmato accordi di collaborazione con le controparti cinesi in occasione della visita di Stato di Xi è dovuto certamente alla loro rilevanza nel panorama mediatico italiano, ma anche alle preesistenti collaborazioni con i rispettivi media cinesi. Purtroppo, anche nel caso di questi due importantissimi protocolli d’intesa, nessuno degli accordi siglati in quella data è stato reso pubblico, quindi per parlarne bisognerà ancora una volta fare riferimento a ricerche su fonti secondarie e interviste. Diciamo che la trasparenza non è certamente alla base dei rapporti tra Roma e Pechino, tantomeno in tema di informazione. […]
Per ultima, viene la collaborazione fonte delle maggiori (e giustificate) critiche da parte degli osservatori non solo italiani ma anche internazionali, quella tra ANSA e Xinhua, critiche che hanno visto il loro apice nel 2021, dopo che ANSA ha ospitato sul suo sito web una pubblicità a tutta pagina del «Quotidiano del popolo», l’organo di stampa ufficiale del Partito Comunista Cinese. La pubblicità presentava due articoli elogiativi sulla ripresa economica cinese e sugli interscambi commerciali tra Cina e Italia. Le critiche furono tali da costringere l’agenzia di stampa italiana a sospendere la collaborazione con Xinhua, con l’ANSA accusata di diffondere contenuti propagandistici o distorti sulla Cina, senza una verifica o una contestualizzazione adeguata. Ma come è nata questa collaborazione? Ancora una volta, a seguito degli accordi nel quadro della Nuova Via della Seta seguiti alla visita di Xi Jinping nel nostro Paese. Uno snodo cruciale. […]
Da un’analisi dei contenuti, infatti, si vede come dopo il 2019 non solo le notizie sulla Cina aumentano sensibilmente, ma appare improvvisamente una grande quantità di notizie lanciate da Xinhua. E riportate testualmente, con un incremento di oltre il 430 per cento delle notizie collegate alla Cina dopo il 2019 rispetto agli anni 2017 e 2018. Le notizie riprese da Xinhua sono passate da zero nel 2017 e nel 2018 a 758 nel 2019 e a più di 2.460 nel 2020. La pandemia ha avuto ovviamente un ruolo importante nell’attirare sulla Cina l’attenzione dei media italiani, ma anche dopo il periodo iniziale di alta copertura del Covid il numero delle notizie di fonte «cinese» è rimasto molto alto. E per sua stessa ammissione, l’ANSA dichiara che le notizie non sono elaborate dall’ANSA stessa ma tradotte pedissequamente dalla versione cinese anche se, a sua difesa, insiste nel far notare che sono chiaramente etichettate «Xinhua». La cosa, però, non rende meno imbarazzante la situazione, soprattutto perché è difficile pensare che la maggior parte del pubblico italiano sappia che Xinhua è un ente cinese emanazione diretta del Partito Comunista, e quindi leggerà la notizia ANSA come una qualunque altra notizia pubblicata dall’agenzia italiana. Questo non vale forse per i giornalisti che usano l’ANSA per vedere le notizie disponibili (anche se vi sono esempi imbarazzanti in tal senso, sui quali, per amor di carità verso i miei colleghi, preferisco qui tacere…). Va detto anche che il problema non riguarda solo Xinhua, perché la stessa dinamica c’è con altre agenzie estere di cui l’ANSA pubblica le notizie. Però, la natura smaccatamente propagandistica, al limite (e spesso anche oltre il limite) della fake news, nell’informazione che viene da Xinhua, rende il caso più problematico: se i lettori si informano con i lanci di agenzia che vengono da Xinhua e li trattano come notizie prodotte da ANSA, non noteranno il taglio smaccatamente propagandistico delle notizie cinesi. E vista l’oggettiva scarsa conoscenza della realtà cinese da parte del pubblico italiano, anche in uno scenario in cui l’etichetta funziona e il pubblico capisce che la notizia viene da una fonte cinese, quanti sapranno come interpretare quell’informazione? La risposta è: davvero molto pochi.
E infine, aggiungo io, quante notizie «sgradite» al governo cinese avrà la libertà di pubblicare ANSA, che so, notizie su dissidenti incarcerati, piuttosto che quelle che ormai tutti abbiamo conosciuto sull’origine della pandemia di Covid etc. etc.? La risposta è, praticamente zero.
Gli organi d’informazione cinesi non cercano soltanto partenariati con i media locali, ma operano anche da soli nel contesto italiano, apparentemente senza alcun controllo. In questo senso ha fatto da apripista China News Service (CNS), la seconda agenzia di stampa statale cinese dopo Xinhua, che nel 2001 ha creato la rivista «Cina in Italia».
L’obiettivo iniziale della pubblicazione era favorire una maggiore integrazione della comunità cinese nel nostro Paese ma con il tempo la Cina in Italia ha allargato – di molto – il suo target e la sua diffusione. Oggi la rivista viene venduta nelle edicole e distribuita negli alberghi di medio-alto livello, nei voli da e per la Cina gestiti da China Eastern Airlines e anche nel Parlamento italiano.
In modo simile, sempre CMG, in partenariato con il ramo italiano di China Radio International, produce la rivista «Cinitalia», con contenuti sia in italiano che in mandarino. «Cinitalia» ha anche una app, un canale YouTube e dei profili di social media su Facebook, Twitter e Instagram.
Grazie all’accordo di partenariato sottoscritto nel 2018 con «Il Giornale» – che appartiene alla famiglia Berlusconi – CMG riesce a distribuire «Cinitalia» a un pubblico abbastanza ampio. È interessante notare che la linea editoriale del Giornale verso la Cina è stata – e continua ad essere – molto aggressiva, come è noto. Ma questo non ha impedito alla testata di dedicare una parte del suo sito web alla ripubblicazione di articoli apparsi su «Cinitalia», anche se i contenuti di questi articoli offrono una visione prevedibilmente positiva e acritica della Cina e delle relazioni Italia-Cina. Ma l’informazione distorta non si limita alle relazioni tra i due Paesi. Per esempio, nel 2018 la rivista ha dedicato la sua prima pagina all’inizio del XIII Congresso nazionale del popolo in Cina. Ma, invece di concentrarsi sulla vera «notizia» – cioè l’abolizione del limite del mandato presidenziale da parte di Xi – il testo si dilungava sugli aspetti positivi delle riforme promosse dal Partito Comunista Cinese. E «Cinitalia» ha fatto pure di meglio, pubblicando articoli che lodano Pechino per la «lotta contro il terrorismo» nello Xinjiang o accusando gli USA di «doppiopesismo» nelle critiche della politica cinese a Hong Kong…