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Perché è bene evitare il fallimento della carta Draghi

Dalle prime dichiarazioni dei partiti, la strada di Draghi verso Palazzo Chigi non sembra essere in discesa. Il rischio che la situazione precipiti è quindi evidente. Ma è bene che tutti ne siano consapevoli. Il commento di Gianfranco Polillo

 

Dalle prime dichiarazioni dei partiti, la strada di Mario Draghi, verso Palazzo Chigi, non sembra essere proprio in discesa. Naturalmente è troppo presto per vedere come andrà a finire. In questa fase dominano incontrastate la pretattica ed il risentimento degli sconfitti. Comunque sia, tuttavia, la base di partenza su cui costruire quel percorso è piuttosto esile. Sommando coloro che, per ragioni varie, non possono dire no al Presidente incaricato, ma soprattutto a Sergio Mattarella, si arriva a meno della metà della maggioranza parlamentare necessaria a garantire la nascita del nuovo governo.

Conviene, allora, esercitarsi sui possibili scenari, analizzandone le forme eventuali. Cominciando dall’ipotesi più estrema, che è quella di un possibile fallimento. In questo caso, Mario Draghi sarebbe costretto a rimettere il mandato e non vi sarebbe altra strada, se non quella delle elezioni anticipate. Non un fatto fisiologico, come avviene sempre in democrazia, ma un trauma profondo: figlio di una irresponsabilità conclamata, messa in luce dalle caratteristiche stesse di un percorso appena giunto a termine. Si possono così immaginare le reazioni successive, a partire dai mercati, che sarebbero durissime. Quindi l’Ue. Nessuno capirebbe come l’ottusità dei singoli protagonisti della vicenda abbia potuto prevalere sulla necessità di garantire al Paese una guida – e che guida! – sicura.

Facile allora prevedere che quella campagna elettorale si potrebbe trasformare in un bagno di sangue. Con il piano vaccinale che non decolla. Il contagio che si sviluppa a causa dei meccanismi stessi della comunicazione. Il blocco dei licenziamenti che viene meno, costringendo alla protesta migliaia di lavoratori. Il Recovery Plan che, nelle migliori delle ipotesi, resta quello che si conosce. Con una Commissione europea poco disposta a farsi carico delle bizze italiane. E si potrebbe continuare. Nella tradizione del Pci si era soliti accennare alla presenza di “trame oscure”. La reazione in agguato per ostacolare il processo di emancipazione del movimento dei lavoratori. Accenni più che vaghi, ma che indicavano il rischio di possibili avventure. Quelle in cui il Paese, inevitabilmente, incorrerebbe.

Nella speranza che questo tragico scenario possa essere scongiurato, si può cercare di pensare positivo. Difficile ipotizzare grandi ammucchiate, temute soprattutto dai giornalisti, militanti occulti dei 5 stelle, come quelli del Fatto quotidiano. Specialmente dal suo direttore: quel Marco Travaglio che non esita, un sol giorno, ad additare Matteo Renzi come il Giordano Bruno da condannare al rogo in Campi de’ fiori. Al di fuori di questi livori, resta comunque la difficoltà nell’unire forze così diverse – dai 5 stelle a Fratelli d’Italia – in un comune afflato solidaristico. Anche se non si può escludere la strada delle astensioni “concordate”. Meno traumatica del comune voto a favore. In passato fu quella scelta che consentì alla Dc ed al Pci di dar luogo a quel “governo delle astensioni”, guidato da Giulio Andreotti, che coincise con la vicenda Moro.

Una seconda ipotesi potrebbe essere quella delle geometrie variabili. Il formarsi cioè di una maggioranza imprevedibile, che inveri, in politica, la teoria del calabrone. Si può escludere? Non sembrerebbe. I 5 stelle sono passati dall’alleanza con la Lega a quella con il Pd e Leu. Dalla destra alla sinistra. Ed in più con lo stesso Presidente del consiglio, che non aveva certo – va detto senza offesa – il pedigree di Mario Draghi. Allora la prima scelta fu fatta in totale disaccordo con le indicazioni di Sergio Mattarella, al punto che Luigi Di Maio si lasciò andare nel minacciare l’impeachment. Nulla vieta, pertanto, che di fronte alle drammatiche condizioni dell’Italia vi possa essere un momento di resipiscenza. Tanto più che eventuali contrasti sul programma non dovrebbero esserci. L’indirizzo della politica del governo non sarebbe nelle mani di un avvocato, chiamato a dare attuazione ad un contratto, ma si svolgerebbe secondo le prescrizioni dell’articolo 95 della Costituzione.

Se anche questa condizione dovesse risultare improponibile, non resterebbe altro che assistere, prima di precipitare nel burrone, ad un processo di scomposizione e ricomposizione delle attuali forze politiche. Processo indotto dalla pressione di un’opinione pubblica, sempre più stanca di giochi di palazzo. Un qualche accenno si é già visto nella scelta di un personaggio come Emilio Carelli, nel suo addio ai 5 Stelle. Il fenomeno potrebbe assumere forme diverse. Da possibili scissioni, come quelle che turbano la vita dei grillini – l’ala ortodossa ed i governativi – ad una resa dei conti interna nei gruppi dirigenti degli altri partiti. Specie di quelli che sono usciti sconfitti dalla Blitzkrieg (guerra lampo) di Matteo Renzi.

Altre possibilità sono difficili da vedere. Si dirà che tutti questi sviluppi richiedono tempo. Ma tempo l’Italia non ne ha. Il rischio che la situazione precipiti è quindi evidente. Ed è bene che tutti ne siano consapevoli.

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