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Sanità Pnrr

Com’è la salute della sanità in Italia?

Il post di Stefano Biasioli

Nei giorni scorsi i giornali hanno pubblicato i risultati relativi alla valutazione che la Commissione Nazionale Lea ha dato alle diverse regioni, sulla base di 33 diversi indicatori di assistenza sanitaria.

LA COMMISSIONE LEA

La Commissione Lea (livelli essenziali di assistenza) nasce da lontano, ossia è il frutto di una serie di disposizioni normative che riassumiamo:

-D.Lgs. 56/2000 (art.9); Legge 208/2015 (c.556); DM 16/06/2016; DPCM 12/01/17…e s.m.i.

Da chi è composta la Commissione: dal Ministro della Salute e dai rappresentanti di Mef, Consiglio superiore di sanità, Istituto superiore di sanità, Aifa, Agenas, Regioni.

Non è dato di sapere (il sito del Ministero non riporta queste informazioni) i nominativi degli attuali commissari… Perché?

Compiti della Commissione: molteplici e, tra i molti, anche quello di “valutare che l’applicazione dei Lea avvenga in tutte le Regioni con lo stesso standard di qualità e includa tutte le prestazioni”.

RISULTATI 2018

Il Veneto risulta al primo posto nella classifica 2018 delle Regioni che assicurano le migliori cure ai cittadini.

In dettaglio il Veneto ha ottenuto 222 punti su 225, seguono Emilia Romagna (221), Toscana (220), Piemonte (218), Lombardia e Liguria (211 Lazio ( 190) Puglia (186) Molise (180) Sicilia (171) Campania (170) Calabria (162).

Come sopra prospettato, spetta al Comitato Lea la verifica permanente dei livelli essenziali di assistenza ossia il compito di verificare come siano erogati i servizi sanitari in termini di appropriatezza e di efficienza nell’utilizzo delle risorse.

DUBBI E PERPLESSITÀ

In teoria, l’attività della Commissione dovrebbe essere fondamentale, per verificare lo stato di salute della sanità italiana, disarticolata perché affidata ad una organizzazione regionale molto variegata.

Ma le cose, forse, non sono così semplici e scontate.

Prima cosa strana: la classifica riguarda solo le regioni a statuto ordinario e non quelle a statuto speciale ad eccezione della Sicilia.

Quindi, i cittadini italiani non debbono conoscere le caratteristiche della sanità di Trento, Bolzano, Val D’Aosta, Sardegna. Perché? Queste sanità ” autonome” non sono forse a carico di chi paga le tasse, anche se abita in regioni a statuto ordinario?

Seconda cosa strana: gli indicatori presi in considerazione sono 33 e vanno dalla adesione agli screening oncologici al quantità e qualità dei parti cesarei, al tasso di vaccinazione e al numero dei ricoveri inappropriati.

Ma 33 indicatori 33 non sono in grado — a nostro modesto parere — di identificare realmente lo stato della sanità italiana che risente profondamente di differenze quali/quantitative non solo a livello regionale ma anche e soprattutto a livello provinciale, considerando che l’organizzazione della sanità varia notevolmente da regione a regione sia per il numero delle aziende sanitarie/regione, sia per il numero degli abitanti assistiti nelle singole aziende ma anche per la diversa articolazione delle unità operative (semplici, complesse, dipartimenti) da provincia a provincia, da azienda a azienda, da regione a regione.

Siamo troppo “vecchi” per non sospettare che il fattore economico (costo/prestazione) abbia un peso elevato, nel punteggio finale.

Terza considerazione.

Qualcuno si dimentica che la riforma del Servizio Sanitario Nazionale è datata 1978. Sono passati 42 anni, è caduto il muro di Berlino, abbiamo visto passare 3 pontificati, è cambiato drasticamente il mondo occidentale ma sono soprattutto cambiate le patologie mediche ed il modo in cui la sanità moderna affronta le principali malattie sia dal punto di vista scientifico sia dal punto di vista organizzativo.

Gli anni ’70 erano caratterizzati da una netta prevalenza delle patologie acute e da una modesta presenza di patologie croniche, tenuto anche conto della minore aspettativa di vita.

Gli anni 2000 si caratterizzano invece per l’esplosione delle cronicità, per un aumento della medicina trapiantologica, per la comparsa di farmaci costosi ma efficaci, per l’allungamento della vita e per una serie di necessità sanitarie legate alla presenza di un universo di “persone sole, con basso reddito, con scarsa possibilità di movimento e quindi con una reale difficoltà di accesso alle cure” soprattutto in ambito ospedaliero e in presenza di patologie che richiedano lunghi periodi di riabilitazione, periodici controlli specifici, assunzione di farmaci potenti ma potenzialmente gravati da pesanti effetti collaterali.

Considerazioni ovvie, ma poco affrontate dai vari Ministri della Sanità degli ultimi venti anni e dai vari Governatori regionali.

Un esempio su tutti.

Le recenti dichiarazioni di Luca Zaia, il “valido” governatore di quel Veneto che è posto oggi al primo posto della classifica Lea: “Le scelte organizzative fatte e i continui investimenti in tecnologia hanno premiato […] è una soddisfazione di squadra, una squadra che ringrazio per lo straordinario lavoro quotidiano dei grandi medici, dei loro team, dei bravi infermieri di tutti coloro che ogni giorno danno il loro contributo in corsia o dietro una scrivania. L’obiettivo comune, il bene dei cittadini… rispettare 33 parametri di qualità con 222 punti su 225 significa erogare pressoché al 100% i livelli essenziali e rispettare la Costituzione che li prevede come obbligo della sanità concepita in modo universalistico. È la promozione più grande ma proprio per questo ci impone di lavorare per essere ancora più performanti con altri progressi e investimenti in tecnologie e sul personale. La sanità veneta grazie a tutti i suoi protagonisti è evidentemente riuscita a passare dall’era analogica a quella digitale in un settore in continua evoluzione ad esempio con le prestazioni diagnostiche moltiplicate. Oggi abbiamo ospedali che hanno o richiedono la seconda e la terza Tac o la seconda e terza risonanza magnetica: la nostra risposta è sì senza se e senza ma”.

Considerazioni condivisibili per l’80%. Ma che non tengono conto di tante criticità.

In primis, la limitatezza delle risorse, con creazione di “budget inadeguati”.

In secondo luogo, la carenza di medici specialisti (in Veneto, circa 1300) e di infermieri.

In tertiis, gli aspetti organizzativi, ossia la risposta 2020 alle richieste di prestazioni sanitarie e la reale spesa individuale per ottenere le prestazioni sanitarie, anche “basilari”. Quanti denari pagano, oggi, gli italiani e i veneti per ottenere prestazioni sanitarie, teoricamente gratuite? E, perché sborsano questi denari, oggi? Per colpa delle “reali” liste di attesa o per sfizio?

Tutto bello tutto perfetto?

Non per noi che abbiamo lavorato nella sanità pubblica con compiti di responsabilità medica e sindacale (regionale e nazionale) per oltre 50 anni e che tocchiamo tutti i giorni con mano l’insoddisfazione della gente che si reca nei vari ambulatori della Regione Veneto.

Intendiamoci. La qualità delle prestazioni erogate dai medici e dai vari sanitari veneti è certamente alta. Nessuno discute la professionalità dei medici e degli operatori del settore.

Molto spesso le rubriche, che i giornali dedicano alle lettere dei lettori, contengono ringraziamenti nei confronti di chi ha fornito prestazioni sanitarie in ambito pubblico e privato.

No, non ci sono grosse lamentele sulla qualità delle cure fornite ma ci sono grosse lamentele rispetto all’organizzazione complessiva del sistema che rende praticamente impossibile un accesso tranquillo e sicuro alla maggior parte delle cosiddette prestazioni ambulatoriali.

Il riferimento voluto riguarda i tempi di attesa per tutta una serie di visite specialistiche: non solo quelle cardiologiche o quelle oculistiche ma anche e soprattutto gli esami radiologici, le visite endocrinologiche, le visite dermatologiche, le visite urologiche, le visite e la tempistica riabilitativa.

Sono solo alcuni esempi che evidenziano come, anche in tempi di digitalizzazione, la metodologia di accesso alle strutture ambulatoriali sia oggi largamente inadeguata.

Si pensi all’assenza di un “dossier informatico-sanitario personale”, che semplifichi l’accesso alle diverse strutture e il lavoro dei medici.

Si pensi ai Cup provinciali che non sono coordinati tra loro e che costringono il paziente a dover scegliere, per la visita specialistica richiesta, tra diversi ospedali distanti anche decine di chilometri dalla sua residenza.
Quindi l’eventuale “risposta ottimale ai tempi di attesa teorici” costringe il paziente a migrare da un ambulatorio all’altro, cosa non sempre facile soprattutto se si tratta di persone anziane, sole, malate e con limitate possibilità di spostamento in automobile.

Quindi, i tempi di accesso alla singola prestazione specialistica possono essere teoricamente rispettati ma nella sostanza il paziente è costretto ad un tour sanitario ed è praticamente impossibilitato ad essere seguito, per una data patologia cronica, dallo stesso medico o dalla stessa struttura di riferimento.

Si tratta di una grossa ingiustizia che incide profondamente sul diritto sanitario e che è legata non solo alla carenza di medici, non solo alla carenza di specialisti, non solo alle gravi responsabilità organizzative delle nostre università ma anche soprattutto alla incapacità pluridecennale della politica di aver programmato un nuovo tipo di assistenza sanitaria basata non tanto e non solo sugli ospedali ma soprattutto su una enorme rete di poliambulatori specialistici, in grado di rispettare nella sostanza il diritto all’assistenza.

Rispettare nella sostanza e non nella forma. Sappiamo bene che le risorse sanitarie non sono infinite e, sappiamo bene che esiste una carenza di medici ed infermieri.
Sappiamo bene che facile brontolare ed è difficile fare ma è certo che l’ attuale organizzazione delle strutture sanitarie non è assolutamente più adeguata alle necessità odierne, legate allungamento della vita e alle patologie croniche invalidanti cui vanno riservate o cui andrebbero riservate le maggiori attenzioni.

Per quanto riguarda il Veneto c’è da chiedersi quante siano oggi le risorse sprecate per strutture ospedaliere non ancora totalmente dismesse. Alcuni nomi: vecchio ospedale di San Bonifacio e di Soave, vecchio ospedale di Cologna Veneta, ospedali di Schio e di Thiene, vecchio ospedale di San Bonifacio e di Soave, vecchio ospedale di Cologna Veneta, Caprino.

C’è da chiedersi se l’attuale organizzazione delle AUSL/ASL venete, basata su una struttura provinciale o semi provinciale, sia da ritenersi ottimale oppure sia fonte di una grande confusione e di dispersione di risorse tra Ospedali di dimensioni praticamente simili, con funzioni specialistiche simili e con primariati a scavalco.

Oggi, purtroppo, ci sono medici ospedalieri che sprecano ore di lavoro per andare in auto da un ospedale all’altro, perché sono responsabili di strutture specialistiche in ambiti ospedalieri diversi.

Un esempio su tutti: quello del Direttore della Nefrologia della ASL di Verona che è responsabile di tutte le strutture nefrologiche e dialitiche della provincia di Verona ad esclusione di quella a valenza universitaria.

Questo povero collega quanto tempo passa in macchina? Da Legnago a Caprino sono 77 Km, ossia almeno 70 minuti, per la sola andata. Ossia il 12,2% del tempo lavorativo di “un Primario” sprecato in viaggi. E quanti altri Colleghi sono costretti ad assumersi responsabilità medico legali per strutture sanitarie a loro affidate e che non sono in grado di gestire al 100%?

Vorremmo che qualcuno riflettesse e ci desse delle risposte.

CRITICA COSTRUTTIVA

La nostra è sicuramente una critica costruttiva perché associata a proposte concrete che abbiamo formulato da tanti anni e che nessuno ha mai voluto recepire, finora. Una su tutte, il ritorno alla classificazione/graduatoria funzionale delle strutture ospedaliere, com’era negli anni 70.

La classificazione degli ospedali (zonali, provinciali e regionali) permetteva una chiara suddivisione delle competenze ospedaliere di base e delle competenze specialistiche, senza spreco di risorse e con ottimizzazione delle prestazioni mediche.

Alcune volte, il ritorno al passato non è una sconfitta ma una vittoria. La vittoria del buon senso e della prassi sulla teoria. Buon senso, come quello di chiamare medici i medici e “Dottori” tutti gli altri.

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